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Ho gironzolato su Femminile Plurale.
Un giro al supermarket del femminismo, deposito delle verità oggi universalmente credute e riversate da decenni – a spicchi o a camionate – contro gli uomini. Verità propagandate ogni giorno dai media, insegnate in tutti gli ordini di scuola, infiltrate in ogni opera cinematografica, letteraria e teatrale. Presenti in ogni saggio di filosofia come di psicologia, di storia come di etnologia o sociologia o quale che sia disciplina umanistica o biologica. Rinvenibile persino in testi di filosofia della fisica, di meccanica quantistica e di cosmologia (a richiesta – e a pagamento per le femministe – ne presenterò recentissimi esempi: titolo, pagina, quotation) Verità distribuite poi imprevedibilmente a casaccio come cioccolatini dalle nostre amiche (e amici), colleghe/i, commensali, parenti e via dicendo, nelle più disparate e impensabili occasioni (mai però sussurrate dalla sposina al maritino mentre risalgono la navata centrale tra la musica di Strauss. Come mai?…).
Un affastellarsi senza fine di contraddizioni, deformazioni, parzialità, leggende metropolitane e verità vere aventi come scopo e risultato la riconferma di quel che alcuni refrattari (noi) non vogliono digerire: la storia è storia del male creato dagli UU che hanno sempre avuto tutto il potere. A questo trend universale ha cercato di porre rimedio, per la prima volta da sempre, il femminismo occidentale, la cui opera però è ben lungi dall’essere compiuta ed anzi sta subendo rinnovati attacchi da coloro che non tollerano le conquiste e le libertà femminili (noi). Il privilegio maschile è ancora quasi del tutto integro e il genere femminile è la Vittima innocente che esige compensazioni e risarcimenti. In questo quadro gli UU non hanno alcun titolo per rivendicare alcunché e non vi è ragione per perdere tempo ad ascoltarli. Si lagnano del potere perduto e/o in via di erosione.
Ho detto che ci sono pure delle “verità vere”. Certo, non si pretenderà che una grande menzogna sia priva di verità inconfutabili. Al contrario. Vi svolgono il ruolo dei tondini nel calcestruzzo. Ne esce una struttura inattaccabile. Che si possa manipolare tanto con le bugie quanto con la verità è un dato acquisito. Meglio però usare un sapiente impasto delle due. La narrazione femminista in ciò è insuperabile.
In quel ginepraio di argomentazioni si possono trovare tutte le contraddizioni, le aporie, le “dimenticanze”, le incoerenze, i sofismi, i paralogismi, le proiezioni, gli stravolgimenti immaginabili. Il movimento maschile mondiale ne ha fatto la radiografia da tempo. Qualsiasi forma di coerenza e di logicità vi è impossibile: la loro applicazione manderebbe in pezzi il racconto femminista. Infatti l’intera azione del movimento maschile non è altro che la pretesa dell’applicazione agli UU di quegli stessi criteri/valori che oggi si applicano alle DD in modo esclusivo. La lealtà fa saltare per aria il femminismo.
Da questa insalata russa di argomentazioni pesco solo alcune stravaganze e assurdità.
1- La società è ancora maschilista, lo prova il fatto che ci sono ancora stupri. Nella società femminista non ci saranno più. Bene.
Dunque, posto che in una società civile non ci sono né furti né rapine ne segue che nessuna società è mai stata civile e che nessuna lo sarà mai, perché furti e rapine ci saranno sempre. E si badi la sottigliezza della cosa. Dicendo che furti e rapine ci saranno sempre non è necessario aggiungere “Speriamo che l’evoluzione della civiltà le riduca e magari le azzeri” e non è necessario professarsi “nemici dei furti e delle rapine”. Se invece si osa dire che di stupri ce ne saranno sempre, immediatamente si viene sospettati e denunciati come “giustificatori dello stupro”. Quel criterio che si applica in una direzione, subito viene stravolto quando torna utile. In ogni caso, posto che presenza stupri = società maschilista, la conclusione è chiara: la società maschilista è eterna e come tale verrà descritta ai nostri pro-pro nipoti per i millenni a venire. L’assurdità dell’equazione è smaccata. Ma utile. Utile nella guerra contro gli UU.
2- Aborto. Essendo quelli del MUB antifemministi, si suppone a priori, si “sa già” che sono antiaboristi. Poi si scopre che non lo sono, anzi che magari rivendicano addirittura il diritto di disconoscere la paternità, al pari di quel che fanno le DD con l’aborto. Il diritto maschile all’aborto. A questo punto ci si trova c’accordo, ma in che modo? Con una risposta soggettiva: “Io credo che anche gli UU debbano poter decidere…”. Ma l’argomento non è se Maria Rossi sia d’accordo o meno che anche gli uomini possano decidere della loro vita. L’argomento è se gli UU qui ed ora lo siano e la risposta è: NO oggi non lo sono. L’argomento non sono le opinioni soggettive di Anna Verdi: è se un simile stato di cose meriti o meno il nome di delitto. Di crimine istituzionalizzato a danno dei maschi (e a vantaggio delle femmine). Con la risposta soggettivista si elude il problema. Si capisce: è un problema maschile la cui soluzione metterebbe a repentaglio un pezzo del potere femminile sulla vita (e il reddito) degli UU. Meglio glissare.
Il tema del contendere è: come mai Lei si e Lui no? Quali forze e quali ideologie hanno portato a questa disparità? Come mai il detentore del potere quasi assoluto ha ceduto sulla questione più importante della sua vita trasformandosi in esecutore della volontà femminile?
Come mai il simmetrico diritto alla parità nella decisione sulla generazione non è mai apparso nessun saggio femminista? Come mai il femminismo che ha nella parità assoluta il suo dogma, il suo idolo, il suo Dio, si è dimenticato di questo piccolo particolare? Come mai in 40 anni non ne abbiamo mai sentito parlare? Da nessuno e mai.
Il quadro è chiaro. Anche in questo caso le interessate “sanno già” tutto a priori. Perciò non leggono i testi del movimento maschile (di cui “si sa già” l’origine, il contenuto, lo scopo), non guardano i manifesti dei movimenti presenti nel web, non ascoltano la voce dei separati etc.
Il sistema psicoemotivo che sta alla base del femminismo e le conoscenze che esso mette in circolazione formano un barriera assolutamente insuperabile. Non ci sono argomentazioni, considerazioni, dati, statistiche, cose, fatti, avvenimenti che possano erodere l’assoluta certezza dell’assoluta intangibilità del femminismo, dei suoi dettami e dei suoi obiettivi.
Abbiamo visto che si è giunti sino al punto di affermare che 1 è più grande di 1000 (“Ne muoiono più per violenza maschile che per qualsiasi altra causa.”)
Se passa una “verità” siffatta, può e deve passare ogni menzogna.
Dove c’è benevolenza non servono argomentazioni. Dove queste sono sterili vuol dire che non c’è benevolenza. Quelli del Momas la chiamano misandria. Infinito egoismo, infinita superbia e infinita presunzione femminista. XXI Capitolo dell’Odissea del Rancore.
Colpisce noi.
RDV
203 Commenti
Gruber: «La tv italiana è maschilista anche se La7 ha dimostrato di essere all’avanguardia, è una rete che crede nella sua vocazione sperimentale. Per il resto basta vedere le cifre: l’unico direttore di telegiornale donna è Bianca Berlinguer al Tg3. Ma in fondo la tv è solo lo specchio di quello che avviene nel Paese dove le donne stanno sempre fuori dalla stanza dei bottoni. Per questo sulle quote rosa mi sono ricreduta. Quote rosa non significa che tra uno bravissimo e un’asina, si privilegia l’asina, ma che a parità di curriculum le donne vengano premiate. Sarebbe un vantaggio per il Paese».>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>
Mai che pensino che forse c’è anche una ragione che niente ha a che fare con il sessismo se stanno fuori dalla stanza dei bottoni. No, è sempre e solo perchè sono discriminate. Poi la televisione italiana sarebbe maschilista perchè c’è solo un direttore di telegiornale donna…ma che parametri di valutazione utilizza? E questa storia della televisione italiana maschilista…forse anche lei ragiona come la sua amica che quando vede una minigonna grida allo scandalo e al maschilismo. Le quote rosa? Bello non faticare e avere la minestra pronta, vero Lilli? Ma non eravate voi quelle che spronavano tutti ad attuare in questo Paese più meritocrazia?
Se è per questo anche i cantieri, le fonderie, le cave, le miniere, ecc., sono… maschiliste.
NOI DONNE, novembre 1989.
NORD E SUD DEL MONDO:
IL FEMMINISMO NON COMUNICA? (pag. 67-69)
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Ci sono forti movimenti di donne in Sud America, Africa, Asia che oggi rivendicano come propria la “sfida femminista”. Ma parlano un altro linguaggio e privilegiano l’analisi sociale sulla filosofia: le femministe del primo mondo non hanno nulla da imparare da loro? Come mai la comunicazione è così scarsa e, al più, delegata alle esperte? E’ giunto il momento di cominciare a interrogarsi sull’autosufficienza del femminismo occidentale, italiano in particolare.
di Maria Rosa Cutrufelli.
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Viaggiare per me significa essenzialmente incontrare donne di lontane e diverse realtà, conoscere la loro vita quotidiana, partecipare alle loro riunioni, scambiare progetti, analisi, desideri. E alcuni momenti, alcuni incontri li ricordo con particolare emozione: così, quei quattro giorni di dibattito a Bogotà, nel 1981, fra alcune centinaia di donne arrivate da 25 paesi per partecipare al primo convegno femminista dell’America latina e del Caribe. Rapporto fra femminismo e lotta politica, autonomia, sessualità, self-help, ricatto sessuale sul luogo di lavoro: il femminismo latino-americano nasceva con caratteristiche sue specifiche ma era facile, alle poche occidentali presenti, capire, sapere, comunicare. Parlavamo lingue diverse, ma usavamo un linguaggio politico “trasmissibile”. E il femminismo era il terreno comunque di confronto. Oggi è ancora così? Il linguaggio del femminismo può essere un fertile terreno di scambio politico? Nel 1980 alla conferenza di Copenhagen, che a cinque anni dalla proclamazione del decennio delle donne lanciato dalle Nazioni Unite voleva fare il punto sulla condizione femminile a livello mondiale, la parola ‘femminismo’ era ancora rifiutata da molte donne provenienti dai paesi del terzo mondo. “Parlare di femminismo”, disse una donna nera, “a chi non ha acqua né cibo né casa è un nonsense”. Quest’antica polemica fra femminismo occidentale e donne dei paesi chiamati con un eufemismo ottimistico ‘in via di sviluppo’, sembra oggi per certi versi superata. Molti gruppi di donne (in alcuni casi veri e propri movimenti) nati negli anni Ottanta in Sud America, in Africa, in Asia hanno rivendicato come propria la ‘sfida femminista’ (ed è un fermento, un’evoluzione inedita del femminismo da noi assai poco analizzata e valorizzata). Oggi troviamo donne orgogliose di dirsi femministe in India come nelle Filippine, nel Senegal come nel Perù, in Colombia come in Ecuador. Ma questo ha forse significato un avvicinamento politico del femminismo occidentale al femminismo del terzo mondo e, soprattutto, ha significato una maggiore conoscenza e comprensione fra donne di razze e culture diverse, ha comportato uno scambio effettivo di esperienze e di ipotesi politiche? A me sembra che il femminismo occidentale, ma in particolare quello italiano, si sia invece chiuso al confronto con le donne appartenenti ad altre realtà geografiche. La riflessione politica sulla necessità di questo confronto (e sulle sue conseguenze pratiche) è stata affidata alle istituzioni o, al più, alle ‘specialiste’, alle donne ad esempio che si occupano professionalmente di cooperazione internazionale. Si sono così creati dei mondi femminili chiusi, non comunicanti fra di loro se non sporadicamente, su temi e battaglie parziali e circoscritte (le mutilazioni sessuali, il rogo delle vedove, eccetera). Questa indifferenza, che può facilmente trasformarsi in pericolosa chiusura all’altra, alla diversa (colei con cui non è utile comunicare perché, non essendo simile, non può condividere la nostra strategia politica), impoverisce e toglie politicità al femminismo. In un momento in cui invece il femminismo potrebbe rappresentare (se non essere) “una potenziale forza di cambiamento dell’ordine sociale e delle relazioni umane”, come scrive la teorica femminista Delia Aguilar, filippina. Eppure siamo ben consapevoli di vivere in un mondo in cui l’interdipendenza fra le economie cresce e gli avvenimenti politici sono pienamente comprensibili solo se visti in un contesto internazionale e transcontinentale. Un mondo in cui popoli, culture, razze diverse vengono a stretto contatto, si mescolano, si integrano, si scontrano drammaticamente. Come possiamo, quindi, ripiegarci su noi stesse, posare il nostro sguardo solo su ciò che più ci è vicino? Indubbiamente, nonostante tutto, c’è stato – e continua a esserci – un legame (per quanto casuale e volontaristico) e una contaminazione reciproca fra i movimenti dei vari paesi e dei vari continenti. E tuttavia mi sembra che oggi siano le altre, le donne del terzo mondo, quelle che più di recente hanno scoperto il femminismo, a sentire il pericolo dell’intolleranza che nasce dalla non conoscenza e dalla mancata comunicazione, e a porsi il problema del rapporto fra le diverse teorie e strategie politiche del femminismo. Ricordo la lucidità con cui una cilena mi spiegava:”Non vogliamo una definizione di femminismo: non c’è un femminismo. Il femminismo non è una meta ma un cammino da percorrere insieme, senza tacere le differenze materiali e ideologiche fra di noi, senza cullarci nel mito ingannevole della solidarietà senza condizioni fra donne. Del resto, in che cosa si è differenziata la pratica femminista dalla pratica politica delle organizzazioni della sinistra? Proprio in questo: che non abbiamo paura degli anatemi, discutiamo liberamente senza il marchio dell’ideologia”. L’analisi teorica è senza dubbio una parte importante del lavoro politico delle femministe del terzo mondo. Ma è soprattutto l’analisi sociale, ben più ricca e articolata della nostra, che rivela come il loro femminismo sia profondamente segnato e calato nella realtà in cui vivono. Realtà che le porta a usare termini per noi desueti e che tuttavia esprimono la condizione di vita affettiva della grande maggioranza delle donne, nel mondo: fame, miseria, asservimento, oppressione, violenza politica. Anche se spesso lo scontro fra i vari gruppi teorici è aspro, nessuno si permette di ignorare la necessità dell’analisi sociale. Per rendersene conto basta sfogliare i loro documenti, le loro riviste dove si confrontano gruppi diversi e tuttavia sempre attenti a non dimenticare né sottovalutare i bisogni, oltre che i desideri, delle altre donne. Scrive nella rivista Quehaceres un gruppo femminista di Santo Domingo:”Perché non dirlo? A volte proviamo vergogna di fronte alle donne delle classi sociali subalterne, schiacciate dalle necessità materiali, da una miseria sociale che penetra attraverso i pori della pelle. Ma il movimento femminista e il movimento popolare sono due espressioni diverse del movimento delle donne che non necessariamente coincidono e seguono strade parallele, che possono tuttavia congiungersi in alcuni specifici momenti”. Un movimento articolato, dunque, e comunicante: questa sembra essere la ricchezza del femminismo del terzo mondo. Una ricchezza con cui non riusciamo, ancora, a fare i conti.