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Viaggio alla ricerca di un’identità negata. Una testimonianza di povertà ed emarginazione”
Parte 1:
Provengo da una famiglia per tradizione povera e proletaria, se si considera che i miei nonni materni ebbero cinque femmine e due maschi, e mio padre fu l’ultimo arrivato e unico maschio dopo tre figlie. Il padre di mia madre lavorò in una miniera in Sardegna, nei pressi di Iglesias, e per aver contratto la silicosi gli fu elargita una pensione di invalidità. Quando riusciva a risparmiare qualcosa e a permettersi di comprare un dolce da portare a casa, ai bambini che gli si raccoglievano intorno impazienti presentava il dono come ricompensa per una esecuzione accettabile di ‘bandiera rossa’. Sua moglie, mia nonna, era sufficientemente impegnata durante la giornata a rendere la vita di quelle povere creature la più spensierata e felice possibile, con quel carattere pacato e dolce tipico delle donne sarde più umili. Non meno o diversamente impegnata era la mia nonna paterna, specie dopo che suo marito, mio nonno, anche lui comunista appassionato, perse il buon lavoro di elettricista perché durante il fascismo non si piegò, non volle adattarsi come sembra sia abile a fare la gente di Asiago, pronta a seguire il vento come una banderuola, tanto che divennero tutti partigiani quando il regime terminò, nonostante il sacrario di Leiten, che ancora oggi troneggia nel mezzo dell’altopiano, parli di un altro passato. A mio nonno il sangue montava facilmente alla testa, non c’era modo di trattenerlo durante le discussioni e le risse, né la diplomazia o il compromesso facevano parte del suo carattere, così in molti si adoperarono perché perdesse il lavoro e dovesse ripiegare in quello ben più umile di taglialegna. Per questa incapacità di adattamento, i maschi che portano il mio cognome sono considerati da quei paesani inaffidabili. Imparò a conoscere il bosco e a fare di necessità virtù quando ebbe modo di aiutare i partigiani, quelli autentici, che si davano alla macchia.
Mio padre aiutò suo padre, già da bambino, a tirare il carretto della legna, ad usare accetta e ‘coltellasso’, poi fece anche il recuperante a guerra terminata ed emigrò in Canada a tagliar piante per il governo canadese. Soleva raccontarmi che durante i rigidi inverni in bosco, nella neve, si scaldavano saltellando intorno al fuoco. Trascorse lì sette anni e sette lunghi inverni prima di tornare in Italia. Due sorelle, due zie ed uno zio si erano trasferiti a Genova, uno dei vertici di quel triangolo industriale da cui partì l’industrializzazione in Italia del nord. Seguendo le illusioni di una vita migliore decise di raggiungerli, e dopo poco tempo fu assunto come operaio alla Esso, il noto colosso petrolifero, ove rimase fino alla pensione. Aveva 31 anni.
Il lavoro in porto non era certo dei più leggeri, richiedeva turni notturni quando le petroliere cariche arrivavano dopo lunghe traversate e si dovevano riempire i serbatoi con i prodotti di cui erano piene le stive, ma era ben organizzato, gli operai godevano di un ottimo stipendio ed erano tutelati dai sindacati, la cui forza era attiva e la reputazione ancora non discussa, per cui i turni di notte erano retribuiti con una maggiorazione della paga e seguiti da turni di riposo, gli eventuali straordinari erano riconosciuti e le ferie garantite. Erano gli anni sessanta, un periodo d’oro per l’economia italiana, e tutti sembravano beneficiarne in misure diverse, o per lo meno esistevano norme legislative e costituzionali che venivano rispettate ed istituzioni che si adoperavano per garantirle. Per la prima volta a mio padre fu concessa una tregua dalle – fino ad allora – usuali preoccupazioni che si risolvevano interamente nel cercare di mettere a tacere lo stomaco e sfuggire alla miseria. Osò sperare di poter mettere su famiglia e probabilmente fu questo stesso stato d’animo che lo condusse a riconoscere in mia madre la sua futura compagna. Si conobbero tre anni dopo che mio padre entrò alla Esso, un periodo sufficiente probabilmente per acquisire fiducia in sé stesso. Mia madre aveva 22 anni. Si sarebbero sposati tre anni dopo, un periodo sufficiente e necessario probabilmente per costruire nelle loro condizioni fiducia e progetti per un futuro.
Occorre tempo per costruirsi una vita dignitosa, e tempo per crederci prima di porre le prime fragili fondamenta. Credo che questa sia una verità che tutti conoscono, anche se inconsciamente; la conoscono bene coloro che oggi si impegnano a precarizzare il mondo del lavoro: la mente è soggetta ad una crescita naturale, e le occorrono punti fermi su cui basare le transizioni che conducono alla piena coscienza di sé come individuo e come persona. Ogni società, piccola o grande, attribuisce grande significato ad alcune di queste “transizioni”, che in antropologia sono definite riti di passaggio e di cui solo la saggezza popolare, quando e se è accessibile, garantisce al povero una certa consapevolezza.
Credo che per i miei genitori, lontani dalla loro terra d’origine fin da giovani e dunque senza radici e punti di riferimento fermi, tutto ciò sia accaduto loro inconsciamente. Avevano terminato solo le scuole elementari, e tutto ciò che avevano era la famiglia, un luogo che nelle traversie della vita doveva essere sicuro, a cui padre e madre si dedicavano ognuno con le proprie forze ed il proprio ruolo, senza interruzioni e senza aspettarsi di averne. Riuscivano nonostante ciò a crearsi e concedersi momenti di felicità che hanno impresso in ricordi diventati in séguito materia dei racconti per i nipoti.
Mia madre, essendo la più giovane tra le sorelle – quattordici anni la separavano dalla maggiore – si calò con naturalezza e buona disposizione d’animo nel ruolo di levatrice per i nipoti e, per continuare a tener fede al suo impegno, raggiunse le sorelle a Genova dopo che queste vi si recarono in cerca di una sorte migliore seguendo le stesse illusioni che avevano attratto mio padre. Aveva 14 anni quando sbarcò in continente e diciannove quando ottenne il suo primo lavoro come operaia, confezionando bustine di té per quaranta ore alla settimana per nove anni, fino a quando rimase incinta. Mio padre aveva 41 anni quando mi diedero alla luce, mia sorella arrivò due anni dopo.
Crescemmo in una tipica famiglia operaia, un ambiente semplice ma dignitoso. Per noi bambini era festa grande quando mio padre tornava dal lavoro e trovava il tempo di intrattenerci con l’armonica a bocca e di coinvolgerci in canzoni popolari che avevamo avuto il tempo di ascoltare durante il giorno da uno di quei giradischi a valigetta tipici dell’epoca. Erano occasione di festa maggiore le periodiche e chiassose riunioni con parenti, durante le quali si raccontavano i soliti ma sempre divertenti aneddoti, si cantava e si mangiava cibo buono e abbondante. Che si voleva di più dalla vita? Per gli adulti era dura ma dignitosa, per i bambini e i ragazzi uno spasso.
Ho sempre cercato invano fuori da quell’intimo contesto una corrispondenza a quel clima di comunità forte, di complicità e compartecipazione emotiva, di coinvolgimento per tutti nelle attività anche più semplici, di armonia nei rapporti tra uomo e donna che veniva rispettata e osservata con responsabilità, e che solo oggi riesco ad apprezzare pienamente, ma che allora fu determinante nel permettermi un’infanzia semplice ma felice.
Nel giro di venti anni Genova iniziò a cambiare, cominciò a sentirsi la necessità di chiudere o trasferire altrove le industrie maggiori, le stesse che avevano permesso alle comunità operaie, costituite nella maggior parte da immigrati italiani, di crescere in numero e coesione e di osare sperare di metter su radici. Da un osservatore esterno questo fenomeno oggi verrebbe definito con il termine delocalizzazione. Ideologicamente fu sostenuto da campagne ecologiste e di recupero della tradizione locale, e coloro che iniziarono a promuovere culturalmente il cambiamento sono gli eredi di coloro che quando convenne distrussero spiagge di vanto nazionale per costruire stabilimenti, come successe a Cornigliano con l’Ilva. Anche la Esso chiuse i battenti e mio padre fu trasferito a Savona, mentre altri spostarono casa e famiglia a Roma. La transizione cambiò Genova da città industriale a città oggi costituita in prevalenza da società di servizi e da piccole e medie imprese a conduzione familiare. Specialmente in ambito scolastico, la reazione provocata dalla verità sulle mie origini, sul fatto che mio padre era un operaio di una delle sette sorelle, era sempre più evidente, ma non ho mai avuto vergogna di sostenere la verità, specialmente a riguardo delle mie origini e della mia identità.
Mi sono sentito solo durante tutti gli anni del liceo. Ero circondato in prevalenza da rampolli di buone famiglie genovesi, i cui cognomi durante l’appello quotidiano venivano pronunciati con maggior enfasi e sicurezza del mio. L’umore della classe dipendeva da quello di un vitellone dalla testa di legno figlio di un avvocato e appartenente ad una ricca famiglia borghese genovese, che soleva vestirsi con un bomber verde, rasarsi a zero il capoccione e divertirsi a menar le mani allo stadio di calcio la domenica. L’ho visto personalmente inveire con la bave alla bocca contro una bambinetta che avrà avuto al massimo quattro anni e la cui unica colpa era quella di indossare una sciarpa della squadra avversaria. Non ho più trovato l’interesse e la curiosità che mi spinsero allora ad andare allo stadio. Con mia profonda amarezza mi accorsi presto di essere l’unico della classe ad opporsi con fermezza all’autorità di quel bullo ottuso, mentre gli altri chi più chi meno ne subivano il fascino perverso e l’influenza. Riflettei e compresi che per la maggior parte dei miei compagni di classe era più saggio ‘pararsi il culo’ che esporsi a ritorsioni, più conveniente la diplomazia ed eventualmente la resa della lotta per affermare la propria identità. Mi tradì un amico e notai con tristezza l’effetto positivo che la forza bruta aveva sulla ragazza cui allora facevo timidamente il filo. Imparai a disprezzare entrambi.
Irritata dalla tensione che avvertiva in classe e dal fatto che un leader sembrava esserci ma non vi era unanimità nel riconoscerne l’autorità, un’insegnante, nota fascista, impose alla classe un confronto su criteri per lei sostanziali, chiedendo al taurino e spavaldo bamboccione e a me alto, magro e cocciuto, di alzarci ed affiancarci, in modo che l’intera classe potesse riflettere su ciò che vedeva. Nessuno disse nulla né io mi sarei mai sentito più adeguato di allora. L’insegnante avvertì il mio orgoglio, lo scambiò per insolenza e mi invitò a soffermarmi più spesso davanti ad uno specchio. Non fu facile per me trovare lucidità e tranquillità durante quegli anni ma ne valse la pena e con l’ultimo triennio e un’insegnante di italiano diversa le cose cambiarono: il bravaccio, cui vennero a mancare le tutele, fu bocciato e non ne seppi più nulla, ma immagino che il sostegno famigliare gli abbia permesso di accasarsi e di sposarsi presto con una donna di piacevole aspetto e metter su famiglia. In fondo si vociferava che a sedici anni fosse già fidanzato.
Raggiungere l’università era sempre stato il mio scopo primario di studente, una responsabilità conferitami da possibilità economiche conquistate dai sacrifici della famiglia, dal fatto di essere primogenito e maschio, che nelle famiglie povere per tradizione avrebbe dovuto garantire supporto per tutti, ed una certa predisposizione che mi era sempre stata riconosciuta. Non avevo però le idee chiare, perché della mia famiglia sarei stato il pioniere in fatto di educazione universitaria, e quindi non esisteva un trascorso su cui appoggiarmi, e perché le materie in cui avevo una particolare predisposizione parevano una scelta poco concreta: spesso chi ha vissuto nella povertà diventa pragmatico e si adopera perché il tratto caratteriale sia lasciato in eredità. Per questo motivo sprecai due anni alla facoltà di ingegneria.
La mia coscienza di classe non era ancora formata ed impiegai anni per riuscirci. Genova si stava prodigando per disgregarne coloro che ne erano portatori e lo avvertivo nella sempre crescente individualizzazione dei rapporti interpersonali soprattutto in ambito educativo, tra compagni, in cui prevaleva la competizione. Le relazioni risultavano superficiali, si consumavano velocemente, tutti parevano avere altri e distanti obiettivi, per sostenere i quali donne e uomini sembravano usare costrutti ideologici contrastanti con cui sembravano impegnarsi a costruire distanze. Tutto ciò era alieno dalle esperienze avute nell’ambiente in cui ero cresciuto, che mi aveva formato e aveva creato delle aspettative. Venni a sapere che alla facoltà di matematica l’ambiente era più raccolto e tradizionalmente di sinistra, così mi giocai le mie ultime carte come studente, con il pensiero però già rivolto alle incombenze di una prossima ricerca di lavoro. La sinistra che conobbi, probabilmente rappresentata dai figli di coloro che si erano convertiti in commercianti e che erano così riusciti ad evitare la diaspora mettendo radici più profonde di altri, tradiva maniere ed ambizioni borghesi. La militanza di quei compagni era formale, utile per rimorchiare ragazze, ed io non avevo né i vestiti giusti né un’automobile. Avevo l’impressione di essere considerato un po’ troppo reale per essere un individuo la cui esistenza non si svolgeva tra le pagine di un libro realista o di un film neorealista: quelli erano accettabili, la realtà da me rappresentata no. Il massimo esempio di considerazione che sia mai riuscito a meritare era una pacca sulle spalle del tutto sporadica ed inattesa, frutto di chissà quali elaborazioni mentali. Era una sinistra che guardava avanti, comunque non più in basso, e la cui eredità, immagino, sia stata colta dal partito democratico.
Le mie motivazioni terminarono prima della fine dell’anno scolastico ed accolsi l’offerta della mia madrina di battesimo, una friulana di umili origini che abitava tre piani sotto il nostro, non poteva avere figli e si era affezionata alla mia famiglia. Era la più anziana ambulante di Genova, aveva iniziato a vendere scarpe con la cesta di paglia legata dietro la schiena, e quando ne ebbe la possibilità si comprò un mezzo più adeguato. Feci il garzone per lei per alcuni anni, fino a quando mi risolsi a cercare qualcosa di più redditizio. Lavorò fino a quando, poco tempo dopo, morì di stenti e di cancro.
A quel tempo la comunità europea cominciò a finanziare corsi di formazione professionale per disoccupati, e in molti videro nell’iniziativa un’opportunità per fare denaro facile. Nel giro di poco tempo si crearono aziende di formazione dal nulla, con docenti improvvisati, senza qualifiche e competenze utili ma con convenienti agganci nella pubblica amministrazione. Del tutto ignaro presi parte come studente ad uno di quei corsi, che sulla carta avrebbero dovuto formare amministratori di server web. La sede non esisteva perché, ci dissero, la società era nuova, così il corso fu improvvisato all’interno di un istituto statale ed affidato alle cure di un docente che aveva un pubblico impiego in quella scuola in un ruolo che non ci fu rivelato. I computer erano pochi e vecchi, ed alcuni vennero assemblati da noi stessi sul posto; alla fine se ne contavano uno per ogni tre o quattro studenti e senza sistema operativo, che installammo quando iniziarono a circolare copie di ignota provenienza. Mancava un programma per il corso e dovemmo arrangiarci consultando la documentazione in internet quando i computer cominciarono a funzionare. Intanto il presunto docente faceva comunella con tre ragazzotti ai quali confidava e spiegava che non occorreva studiare ma bastava continuare a sostenere quella comunella, e ai quali raccontava i suoi trascorsi nelle campagne studentesche cui da uomo di sinistra aveva preso parte. Si venne a sapere che aveva una laurea in biologia. Che brutta fine per Genova che fu la rossa. Avrebbe dovuto esserci una parte di tirocinio in aziende ospitanti ma non fu contattata alcuna azienda e perciò mi risolsi a cercarne una da solo, mentre gli altri corsisti si limitavano a fare presenza in classe. Ci fu anche un controllo da parte di un funzionario della regione Liguria, che immagino finì a tarallucci e vino: erano tutti collusi ed ognuno prendeva la sua fetta di torta. A tutti i corsisti fu garantito l’attestato e la patente europea, io disgustato rifiutai e tolsi l’incomodo.
Fui più fortunato nel corso per saldatori cui presi parte successivamente e che ebbe sede a Carcare, in provincia di Savona. Prendevo il treno fino a Savona, poi il cambio per Carcare ed infine, dopo una passeggiata di venti minuti, raggiungevo lo IAL. Fu un corso di lunga durata e almeno la parte in classe sia teorica sia pratica fu pienamente soddisfacente e conobbi persone degne di rispetto. Era un ambiente di operai, gestito da operai e con operai come docenti, i quali si adoperarono perché io ed un mio compagno svolgessimo il tirocinio al cantiere navale di Sestri Ponente, a due passi da casa nostra, e credo che se avessero potuto avrebbero fatto di più. Tuttavia non poterono, la loro influenza non arrivava fino a Genova e la responsabilità passò all’azienda di Carcare cui venimmo affidati e che aveva vinto un subappalto per la posa dei condotti di aerazione di una nave in costruzione. Ci accorgemmo immediatamente che la presenza in cantiere di quell’azienda si limitava ad un container che svolgeva la funzione di ufficio in loco e ad un arrogante funzionario operativo con mansioni di controllo. Il lavoro era invece affidato in subappalto ad una piccola ditta di Napoli i cui operai erano immigrati cileni ed ecuadoriani, impiegati 14 ore al giorno per sei giorni e otto ore la Domenica, gente dignitosa che trovava la forza di sorridere, scambiare con garbo due parole e sapeva offrire aiuto generosamente quando occorreva, compagni autentici insomma. Presto compresi che probabilmente almeno l’80% del lavoro alla Fincantieri era affidato in subappalto con le stesse modalità, si contavano decine di dittarelle come quella in qui svolgemmo il nostro tirocinio, e ai loro operai venivano affidati i lavori più scomodi e rischiosi. Mi ricordo ad esempio gruppi di albanesi appesi come ragni sulle fiancate della nave. Notammo i lavoratori Fincantieri, specialmente i saldatori, dal candore permanente delle tute e dal fatto che ogni tanto interrompessero il conversare per tirare qualche linea di saldatura. Mi dissi che probabilmente tali incontri erano fortuiti, anche se ripetitivi. Tuttavia, quando anni dopo si iniziò a parlare di chiudere anche il cantiere navale e trasferire il personale a Venezia ed iniziarono gli scioperi e le proteste degli operai della Fincantieri per rivendicare i loro diritti, non provai un’oncia di compassione né riuscii a provare simpatia per loro. Mi chiesi anzi come si potesse definire come diritto un privilegio di pochi e perché nessuno di loro avesse mai scioperato per estendere e garantire quei diritti anche a quei cileni ed ecuadoriani che lavoravano in nero per 14 ore al giorno. La chiamavano Genova la rossa.
Finimmo il tirocinio lavorando sodo ma non oltre le otto ore al giorno, non ci sentivamo forti come i nostri compagni sudamericani e perciò con un po’ di vergogna rifiutammo la proposta di lavorare con loro a ‘paga globale’, cioè in nero, una parte dei contributi previdenziali alla mano.
Cercai e trovai lavoro come saldatore per una piccola impresa artigiana a conduzione familiare che costruiva pozzetti di ispezione e camere iperbariche per piccole imbarcazioni. L’azienda era stata finanziata da un industriale veneto, consegnata al figlio pronta all’uso e condivisa da questi con un socio anziano. Il proprietario era un giovane uomo di origini venete e genovesi, arrogante e viziato con idee di estrema destra, solito ad esternazioni che ferivano anche le orecchie più insensibili, dedito ad attacchi contro la pubblica istruzione che a suo parere generava false coscienze ed intere generazioni di individui con la presunzione del comando, ed altre corbellerie. L’azienda era dono del padre, sempre presente. Completavano il personale il socio anziano, un fido amico di infanzia e la moglie segretaria. Non ci volle molto tempo perché, nonostante mi impegnassi al lavoro e al silenzio, si creasse tra di noi dell’attrito. Il mio corpo e il mio sguardo erano più eloquenti delle mie labbra che mi sforzavo di tener serrate, così conobbi un altro fascista che scambiava il mio orgoglio per insolenza. Riuscii a resistere alcuni anni, fino a quando il risentimento superò la convenienza e le esternazioni diventarono attacchi personali ed evolsero in mobbing. Il giorno dopo che me ne andai, quando passai a ritirare alcuni oggetti personali, c’era già un sostituto in formazione.
Dopo di allora seguirono lavori saltuari di vario tipo ed in mezzo ad essi periodi di disoccupazione più o meno lunghi. Ricordo di aver lavorato qualche mese in nero, con la speranza di una regolare assunzione alimentata da promesse mai mantenute, per una nota azienda agricola di floricoltura di Sestri Ponente. Con me c’erano due uomini anziani che arrotondavano la pensione e si tenevano occupati barattando le ore che avrebbero passato in casa o al bar per qualche soldo, e due giovani, uno dei quali veniva dal Marocco, si preparava velocemente il pranzo su un fornelletto da cucina antiquato e logoro, mangiava altrettanto velocemente e tornava a lavorare nel tempo che io impiegavo per vestirmi, scambiare due parole e prepararmi per raggiungere casa nella pausa di mezzogiorno. Credo che solo le commesse del negozio avessero un regolare contratto. Il proprietario, con il cappellaccio di paglia e i modi da padrone di fazenda brasiliana, quando i danni della gelata furono riparati, mi chiamò e disse sbrigativamente che non gli occorreva più il mio aiuto.
Parte 2: Londra
Non ho mai avuto un’automobile, perciò quando lavorai come rappresentante per Fastweb mi spostavo da un capo all’altro della città con i mezzi pubblici, e a piedi raggiungevo i clienti della zona assegnatami. Mi organizzavo il lavoro da casa da solo, facendo ricerche su internet da cui scaricavo materiale informativo con cui stampavo documenti e tabelle, senza aver mai ricevuto alcuna formazione se si esclude un incontro di una giornata. Dopo un po’ mi accorsi che stavo lavorando non per Fastweb ma per un piccolo ufficio di La Spezia in subappalto, gestito da due persone. Svolsi una gran mole di lavoro soprattutto informativo senza un ritorno concreto dato che avrei guadagnato una percentuale sui clienti che eventualmente avrei acquisito. Il mio impegno attirò l’interesse del responsabile che stabilì un incontro a La Spezia con i titolari. Mi diedero con malcelata incertezza venti euro dopo mesi di lavoro. Erano i primi soldi che vedevo. Li presi ma non mi videro più.
Mi ricordo che uno dei clienti affidatimi abitava su una delle alture di Nervi. Mi accolse con gioia mista ad incredulità, dato che – mi confessò – non si aspettava che lo avessi raggiunto e, per giunta, a piedi. Era un ragazzo della mia età, fu molto cordiale e mi offrì una pastasciutta al pesto come ricompensa per i miei sforzi, che accettai volentieri. Mi spiegò che la casa era della ragazza ed era lì per una visita fugace, sarebbe dovuto tornare entro breve tempo a Londra, dove stava per laurearsi in film studies. Mi raccontò una storia di riscatto sociale, di riscoperta di aspirazioni ritenute ormai vecchie e sepolte, di motivazioni rigenerate, di recupero della tranquillità interiore, della abilità di trarre giovamento dal sonno e della capacità di sognare. Mi descrisse un ambiente stimolante, ricco di opportunità per tutti, dove i reietti erano accolti senza pregiudizi ed avevano l’opportunità di abbandonare i vecchi costumi e scegliersi una nuova identità. In séguito imparai a razionalizzare quei concetti e a determinarne il contesto storico e sociale, per mezzo di studi adeguati. Allora quel discorso ebbe l’effetto, probabilmente voluto, di coinvolgermi, di toccare corde sensibili a causa di un trascorso di frustrazioni e sogni infranti, e creò delle aspettative. Giunsi lì per offrire un mezzo di divulgazione di idee ed acquistai illusioni. Credo che fosse stato più abile di me come venditore, nonostante voglia credere che entrambi avessimo buone intenzioni e nonostante sia ora consapevole che le buone intenzioni siano spesso la condizione mentale con cui si influenzano i burattini, e i fili di Londra sono lunghi.
Tornai a casa e comunicai a mia madre e a mio padre, che vedevo diventare senza possibilità di rimedio sempre più canuto e curvo, la mia intenzione di tentare la fortuna a Londra. Mia madre non sembrò sorpresa né tentò di dissuadermi. Ci provò mio padre, forse memore del suo passato sofferto e credo anche perché non riuscisse più, se mai ne fosse stato capace, a guardar lontano. Ho sempre pensato che impersonasse molto bene il personaggio del cavallo ne ‘la fattoria degli animali’ di Orwell, con la sua cieca fiducia nel futuro e nella bontà del prossimo, incapace di capire che ciò che i paraocchi gli permettevano di osservare fosse solo una limitata porzione della verità, risoluto a continuare a piegar la schiena e tirare il carretto della legna fino a crepar di fatica. Quando la muscolatura del suo corpo provato dalle fatiche cominciò a ritirarsi e a perdere la tensione degli anni migliori, cominciò a rivelare una gobba che negli ultimi anni diventò sempre più evidente, a rivelazione di come aveva impiegato il fisico nel passato. Mi chiese di aspettare paziente l’arrivo di tempi migliori a casa mia, dove sarei stato al sicuro, ma non riuscì a convincermi, ero risoluto nella mia decisione e sordo ai suoi moniti. Un cieco ed un sordo a confronto.
Mi misi in contatto con quel ragazzo ed organizzai la mia partenza con il suo aiuto. Mi avrebbe presentato ad una famiglia presso cui aveva alloggiato i primi anni del suo soggiorno a Londra. Misi in un borsone un paio di cambi di vestiario e di lì a poco partii. Avevo gli anni di mio padre quando a Genova iniziò a lavorare per la Esso.
La famiglia presso cui mi recai era composta da una donna veneta, tozza e dai lineamenti grossolani su cui erano evidenti i segni lasciati dalla poliomelite e da un indiano. Erano anziani e sposati da anni, le figlie erano ormai adulte e conducevano altrove una vita propria. La donna riceveva una pensione di invalidità ed entrambi integravano le entrate offrendo ospitalità a studenti immigrati come me. Il vecchio indiano era piuttosto sottomesso, sua moglie si aspettava da lui funzioni più consone ad un cane da guardia che ad un uomo, sebbene affermasse di apprezzarne l’individualità, caratteristica che secondo lei lo faceva distinguere dagli indiani comuni. Era una donna molto aggressiva, sempre impegnata ad imporre la sua personalità e il suo punto di vista su tutti, e dava ordini con una certa rozza sicumera ed una punta di sadismo. Quando il mio racconto confermò i suoi sospetti che avessi origini meridionali, emerse anche un razzismo piuttosto diretto e privo di orpelli, che andò accentuandosi con il tempo. Mi mostrò la stanza che avrei occupato, piuttosto ristretta, e il bagno dove si premurò perché prestassi attenzione e mi impegnassi ad osservare una direttiva piuttosto importante: ogni volta che uscivo dal bagno avrei dovuto assicurarmi che la tavoletta fosse abbassata. Non ho esperienza di vita coniugale, quindi non saprei dire se quanto ascoltai sia prassi comune tra le coppie sposate, e anche se mi parve una richiesta bizzarra e notai l’enfasi e il tono autoritario e veemente con cui venne proferita, non gli attribuii al momento significato o importanza particolari. Anni dopo, quando lessi le prime campagne femministe contro il ‘mansplaining’, l’associazione mi sorse spontanea alla mente. Ero tuttavia appena arrivato a Londra, luogo la cui distanza dall’Italia non era puramente geografica, anzi: come mi accorsi in séguito, questa era minore rispetto ad altre. Pertanto pensavo di essere preparato a subire una certa razione di sorprese. L’errore di misura in quella valutazione dei rischi era talmente elevato che se ne avessi saputo prevedere solo una porzione quando mio padre mi parlò prima che partissi, probabilmente non sarei stato così sordo alle sue parole. La conoscenza non è un processo immediato, ma lento e doloroso.
Mi iscrissi ad un corso di inglese ed entro venti giorni dal mio arrivo trovai lavoro presso la locale versione di Leroy Merlin, dove mi offrirono un orario compatibile con i miei impegni di studente. Ero l’uomo di fatica, tiravo con il transpallet manuale pallets ricolmi di sacchi di cemento o sabbia, piastrelle e bidoni di vernice dal magazzino al negozio e li sistemavo sugli scaffali, mi occupavo che questi fossero sempre colmi ed in ordine e passavo a fare lo stesso per tutti gli altri reparti, da quello idraulico al legname. La maggior parte dei miei colleghi era costituita da indiani, per la maggior parte ragazzi e ragazze. I primi si occupavano come me della sistemazione degli articoli di vendita, di assistenza clienti e di coordinamento tra i reparti, le ragazze erano addette alle casse e si occupavano di amministrazione. Erano molto fieri della loro identità etnica e culturale e molto uniti, fatto che si traduceva in una definizione di confini e limiti nelle interazioni sociali mai negoziati né ostentati, che si traducevano in una riservatezza quasi naturale. Li rispettavo per questo ed ero rispettato per il mio impegno, la mia serietà e la mia riguardosa osservanza di quei limiti invisibili. Capii di essere rispettato anche e per la prima volta per la mia età, fatto che mi sorprese e che imparai ad apprezzare. Mi fecero intendere che meritavo un certo riguardo anche per il coraggio che richiedeva la mia condizione di immigrato e per aver lasciato la mia terra in cerca di fortuna. Ero grato al manager inglese che senza troppe domande mi aveva assunto dandomi fiducia e l’opportunità di condividere del tempo con quelle persone che componevano un gruppo così coeso ed organizzato secondo principi di divisione e rispetto delle differenze. Casualmente venni poi a sapere che la mia assunzione fu anche un esperimento di integrazione, ma i modi di quel giovane manager inglese furono sempre gentili e cordiali con tutti, e lasciò piena libertà di azione ed interazione senza interferire, tanto che quando due anni dopo fu sostituito da un collega turco fu per noi traumatico. Il nuovo arrivato impose regole da caserma ed esibì atteggiamenti militari, rivelando l’intenzione di portare ordine e pulizia e dichiarando quella di voler ridurre l’organico e aumentare i ritmi di produzione. Solitamente mi occupavo anche della sistemazione del negozio nell’ultimo turno di lavoro, prima della chiusura. Per quelle mansioni era richiesto un numero adeguato di persone perché fossero portate a termine bene e entro un orario accettabile, prima di mezzanotte. Quando le riduzioni di personale iniziarono, ci trovammo nella condizione di non riuscire a realizzare nessuno dei nostri intenti. Mi risolsi a comunicare al manager il nostro disagio e a richiedere una revisione dei suoi progetti con educazione ma fermezza, durante un colloquio privato. Mi rispose accalorato che il mio tentativo di mettere in discussione i suoi ordini era un’insubordinazione e venni licenziato in tronco. Scrissi una lettera all’amministrazione per riportare e denunciare il contenuto e l’esito di quell’incontro. Poco dopo venni a sapere che i miei compagni abbandonarono insieme il lavoro, lasciando quel fascista alla mercé del fato. Mi piace pensare che lessero la mia lettera ed agirono anche per rispetto nei miei confronti. Nel giro di due anni ero stato testimone della nascita in piccola scala di un movimento sociale e di unione di lavoratori, della reazione violenta dei padroni e della replica decisa e spontanea degli operai.
Rimasi in quella casa solo tre mesi. Pagavo 80 sterline alla settimana per un misero cubicolo, l’uso del bagno, due fette di pane e marmellata per colazione ed un pasto al giorno, costituito esclusivamente da riso e pollo. Chi conosce bene Londra sa che con 60 sterline si può trovare una stanza decorosa e la libertà che non avevo in quella casa governata da quella veneta razzista. Per suo ordine il marito controllava che quando aprivo il frigo mi limitassi a prendere solo due fette di pan carré e non eccedessi nell’uso della marmellata. Quella donna non perdeva occasione per sminuire le mie ambizioni ed insultare le mie origini meridionali. Dopo circa tre mesi dal mio arrivo mi comunicarono che ero ospite sgradito e che avrei dovuto cercarmi un altro alloggio, operazione su cui mi ero preparato già da tempo e che perciò portai a termine velocemente. Mi spostai nel nord della città in una casa per studenti del college presso cui studiavo inglese, dove per 65 sterline alla settimana potei occupare una stanza assai spaziosa e graziosa, e potei godere della piacevole compagnia di altri studenti di ogni dove.
Anche il mio corso era piuttosto eterogeneo in quanto a partecipanti. Ricordo una ragazzina romana con una padronanza di inglese invidiabile, la cui frequenza era piuttosto irregolare e che improvvisamente sparì e non vidi più. Il resto era costituito da un gruppetto di spagnoli, di cui due laureati, un ungherese, due francesi, una tedesca, una polacca, un’iraniana, una giapponese e altri dall’Europa dell’est e dall’Asia. Fummo affidati a tre insegnanti donne, delle quali una svolgeva anche il ruolo di tutrice, una donna fredda dallo sguardo sprezzante e penetrante con cui con ostentato distacco misurava per intero l’interlocutore, e per mezzo del quale voleva lasciare ad intendere che il tuo comportamento era sotto scrutinio e giudizio. Era piuttosto sciatta. Notai che il suo atteggiamento era rivolto esclusivamente verso gli studenti di sesso maschile, mostrava platealmente complicità con le studentesse ed esibiva confidenza nei loro confronti, fulminando con lo sguardo qualunque studente si fosse avvicinato a quella comunella. Breve tempo dopo lessi “One flew over the cuckoo’s nest” di Ken Casey e mi risultò chiaro di come la mia impressione di avere già incontrato altrove quella donna derivava dal mio ricordo dell’interpretazione di Louise Fletcher nel ruolo dell’infermiera Mildred Ratched nel film omonimo. Allora ero appena arrivato a Londra, pieno di entusiasmo ed aspettative e non mi sarei lasciato fermare dalle prime impressioni.
Avevo un certo vantaggio nei confronti degli altri studenti perché avevo già studiato inglese e dopo il liceo ero andato in Canada a fare pratica, ospitato da mia zia. Ebbi modo di fare sfoggio della mia erudizione durante il corso, superando test ed offrendo supporto ad altri studenti. Mi divertii anche a comporre brevi racconti e una commedia, nel tentativo di fare breccia nel muro di quella donna. Una delle altre due insegnanti fu piacevolmente colpita dai miei scritti, tanto che mi domandò se fossi interessato a fare della mia inclinazione una professione. Avrei dovuto accedere al livello di inglese superiore per poter entrare all’università, e questo passaggio era regolato dalla volontà della tutrice che non dava segni di simpatia nei miei confronti e che anzi sembrava infastidita dalla mia personalità, per motivi che non riuscivo a comprendere.
Quando diede il permesso ad alcune delle sue pupille di accedere al corso di inglese di livello superiore lasciai passare del tempo per riflettere su quella decisione che mi escludeva e mi risolsi infine a chiederle un colloquio. Durante quel colloquio alla mia domanda se mi ritenesse in grado di partecipare al corso di inglese avanzato rispose affermativamente a denti stretti, socchiuse gli occhi e non rispose quando le domandai il motivo per cui non mi avesse scelto per quell’avanzamento e la invitai a farlo in quel momento se non avesse avuto valide obiezioni. Lo fece, probabilmente per evitare che io rivolgessi altrove le mie lamentele, ma non mi perdonò. Cacciò un urlo isterico ed improvviso un giorno mentre mi stavo presentando ai miei nuovi compagni che sorprese e raggelò tutti, facendo scendere il silenzio e lasciandoci allibiti. Tenne il broncio e gli occhi abbassati fino a quando il termine dell’ora ci liberò dall’imbarazzo. Verosimilmente parlò con la tutrice di quel corso perché fui da questa ignorato e deliberatamente escluso dall’insegnamento, offrendo come giustificazione il mio tardivo arruolamento. L’inglese di quegli studenti era imbarazzante. Era il mio primo incontro con le sorelle femministe.
L’anno successivo decisi di iscrivermi ad un corso di accesso universitario in un’altro istituto, in cui avrei studiato con studenti inglesi o nati a Londra materie umanistiche che avrebbero costituito un corredo curricolare idoneo per uno studente universitario. Il programma prevedeva matematica, letteratura inglese, storia, sociologia e film studies.
L’ambiente di quell’istituto mi colpì per una peculiarità che ai miei occhi disabituati parve alquanto bizzarra: il personale era composto prevalentemente da donne e omosessuali. Erano tutte femministe, incluso i pochi maschi ad esclusione del docente di antropologia, riguardo al quale mi sono sempre chiesto quale sorte singolare lo avesse condotto in quel luogo. Era giovane ed al suo primo anno di insegnamento. Ne approfittai per arruolarmi anche nel suo corso. Fu una scelta felice perché mi trasmise la sua passione per l’antropologia, grazie ad un metodo di insegnamento coinvolgente costituito da un uso costante di logica e di prove concrete a sostegno delle sue argomentazioni. Lo studio di quella materia fu soprattutto importante perché riuscissi a dare un senso a quanto mi accadeva e mi aiutasse a costruirmi una coscienza. Mi ripromisi di approfondire in particolare gli studi di Franz Boas a sostegno della tesi che le differenze razziali siano minime e trascurabili, gli argomenti a riguardo del nature-nurture debate, le prove ottenute da molteplici studi etnografici di come anche nelle culture con una netta divisione di ruoli tra uomini e donne, in cui i primi sembrano avere responsabilità maggiori, le seconde esercitino una influenza indiretta, originata dalla loro autorità in ambito domestico. Un gruppetto di tre studentesse adulte, una delle quali sembrava avere particolare interesse nel disturbare le lezioni di antropologia e che era una femminista militante, mi prese a spintoni in bagno senza motivo apparente. Cominciai ad accorgermi di una semplice verità: italiano, maschio, solo, povero ed immigrato erano aggettivi che in certi ambienti facevano di me un bersaglio grosso e facile.
Nelle altre materie le autrici erano preferite agli autori, i quali venivano denigrati con impegno per giustificare la scelta. Così al famoso storico marxista Eric Hobsbawm, preziosa fonte di informazioni sul capitalismo, sulla classe operaia e sul proletariato inglese, veniva preferito il nome assai meno prestigioso di Maxine Berg; lo stile ed i libri di Charles Dickens venivano vituperati per introdurre Jane Eyre di Charlotte Bronte. L’argomento preferito in sociologia era la violenza domestica, supportato da studi di assai dubbia attendibilità e da fotografie di uomini indigenti, spesso immigrati italiani riuniti in gruppo, che avrebbero dovuto trasmettere un messaggio di pericolo per la loro apparente devianza sociale. Mi impegnai a cercare informazioni in internet a sostegno della tesi che la violenza non ha sesso né basi razziali e citai gli studi che trovai durante una prova in classe. Con mia grande meraviglia ottenni una votazione positiva.
Il mio metodo di scrittura veniva invece ritenuto dalla tutrice del corso e docente di storia troppo ‘filosofico’, tipico di una certa mentalità che in Gran Bretagna, mi confidò, si impegnano a sopprimere. Mi invitò ad essere più diretto e meno riflessivo. Come a sostegno di quelle direttive, diede una votazione negativa a tre delle mie prove scritte che un’osservatrice esterna con ruolo di controllo con mia grande sorpresa cambiò completamente. Fu la prima ed ultima volta in Gran Bretagna che qualcuno prese le mie parti arrivando a sfidare un ruolo di potere. La tutrice ripiegò quindi nel compito di cambiare forma alla mia calligrafia, che assecondai abbassando momentaneamente la guardia dato che avevo ottenuto una significativa vittoria. Ancora oggi scrivo con i caratteri tondi e grandi.
Cercai di rintuzzare ogni attacco, come quando la docente di film studies mi guardò e ghignò durante la visione dello sbarco dei soldato americani a Omaha beach nel film “Salvate il soldato Ryan” in cui un soldato con le budella in mano invoca la mamma in italiano.
Alla fine ottenni l’agognato attestato, ed avevo maturato un certo grado di consapevolezza di quanto mi era accaduto durante quei due anni a Londra. Quella città attirava tutta quella gente di etnia e cultura diverse, composta da emarginati, rifugiati per motivi politici o per guerra, fuggiaschi, reietti, persone che nella loro terra di origine erano gli ultimi e non avevano un futuro ed offriva loro illusioni e false speranze in cambio di un’educazione gratuita, creando portatori attivi di una cultura aliena ed aggressiva, alla maggior parte dei quali non avrebbe offerto lavoro al termine del percorso formativo e che quindi probabilmente sarebbero tornati nella loro terra d’origine per cambiarla o aggredirla dall’interno. Londra insegnò l’eugenetica ai tedeschi prima che in Germania sorse il nazismo, e stava ora continuando a formare e produrre portatori di ideologia femminista e gender, facendo tabula rasa dei loro ‘values and believes’ originari, come si erano impegnati a fare con me cercando di cambiare il mio pensiero filosofico e la mia scrittura, contenuto e forma. Avrei avuto modo di capire più a fondo quanto insinuante e subdola era questa opera, sebbene pensassi di essere cosciente e quindi protetto.
Londra era la rappresentazione concreta della sovrastruttura di Marx. Ero risoluto e pensavo di essere pronto ad incontrare e conoscere la base. Mi iscrissi perciò ai corsi di antropologia sociale e psicologia dell’università di Aberdeen, in Scozia.
Parte 3: Aberdeen
Nacque ad Edimburgo Marie Stopes, pioniera del femminismo ed eugenetista. Fondò la prima clinica per il controllo delle nascite in Gran Bretagna. Trattò il suo unico figlio come un esperimento sociale, vestendolo come una ragazza[1]. Poco distante, Kirkcaldy diede i natali ad Adam Smith, considerato il padre fondatore, ideologicamente parlando, del capitalismo[2].
Presi a noleggio un’automobile e raggiunsi la mia destinazione, dopo circa 900 chilometri di guida.
Aberdeen è considerata la capitale europea del petrolio, si notano in mare grosse piattaforme per l’estrazione del greggio dal mare del nord. L’avarizia degli aberdoniani ha procurato loro fama presso gli altri scozzesi e sono noti per un certo rigore con cui osservano la tradizione di contrarre matrimonio tra cugini di secondo grado. Il loro dialetto è caratteristico, dai suoni aspri e gutturali. Con il tempo, per reazione a come venivo trattato, ho cominciato ad osservare delle differenze anche fisiche tra chi osserva le tradizioni e chi invece ha legato il proprio avvenire alla nuova economia, i secondi più chiari di carnagione. La città è da tempo considerata la più bianca di Scozia e in tempi relativamente recenti ufficialmente anche la più razzista[3]. Non è raro essere aggrediti ad esempio perché si parla anche inglese ma con un accento diverso dal loro. Cosa intendono loro per ‘razza bianca’ non v’era modo che io potessi sospettarlo finché non arrivai sul posto e potei vedere con i miei occhi. Presi l’abitudine a spuntare la voce ‘altro’ nei questionari sull’identità razziale per i candidati alle offerte di lavoro.
La prima volta che passeggiai in Union Street, la via commerciale della città, notai con allarme come la gente mi venisse addosso con intenzione, e come sempre di proposito, quando le nostre anche si sfioravano, pestasse con violenza il piede per terra. Era la prima manifestazione di benvenuto che ricevetti. Ero arrivato con un anticipo notevole di qualche giorno rispetto agli altri studenti ed avevo pensato di fare due passi in centro. Le prime volte che ebbi necessità di chiedere informazioni venni ignorato o schernito. Ebbi l’idea ad esempio di chiedere la lista dei bus e l’orario delle corse allo sportello in stazione presieduto da tre giovinastri, fra cui una ragazza. Uno si sporse verso di me gridando ‘eeh?’ con veemenza ed enfatizzando sconcerto e tornò ad appoggiarsi allo schienale, senza alcuna intenzione di aiutarmi, ridendo scompostamente della propria esibizione di spregio e coinvolgendo nell’ilarità i due colleghi. Non ottenni altro. Imparai a trarre il massimo profitto dalle informazioni che potevo ottenere usando i computer messi a disposizione degli studenti dall’università.
Vi erano però luoghi e situazioni che non potevo evitare, per quanto mi adoperassi a ridurre il contatto con la gente e la frequentazione dei luoghi pubblici, ad esempio i bus ed i supermercati, i primi utili prevalentemente per raggiungere i più economici tra i secondi. Le poche volte che riuscii a salire su un autobus lo feci cercando di intrufolarmi quando le porte si aprivano per far salire la gente del posto, ma avvertivo il fastidio di tutti e notavo il loro sguardo contrariato, imbarazzato e sconcertato, una selva di emozioni ognuna delle quali vedevo apparire in quei volti nello stesso istante, come per trasmissione empatica, e in quel momento non potevo non notare di come tutti sembrassero assomigliarsi e riflettere sull’efficacia di una cultura con basi genetiche comuni. Un estraneo era immediatamente individuato e trattato alla stregua di un virus in un organismo. Non era garantito che una volta entrato riuscissi a scendere dove intendevo, a meno che non dovesse scendere anche un aberdoniano. Le mie richieste di fermata del mezzo erano volontariamente ignorate dall’autista. Raramente osavo anche solo pensare di occupare un posto vacante. Quando lo feci, una volta, accasciandomi spossato e chiudendo gli occhi qualche istante per stanchezza, fui di soppiatto circondato da una squadraccia di giovinastri che presero una foto di quella che doveva apparire loro come l’immagine degradante di un indesiderato. Quando allarmato riaprii gli occhi, iniziarono a fare le scimmie, a ridere sguaiatamente e a urlarmi in faccia. Nessuno colse per empatia il mio sconcerto e quando provai a rivolgermi all’autista per ottenere soccorso fui da quello invitato bruscamente a scendere.
La maggior parte delle volte non mi si permetteva di salire sul bus e se riuscivo a farlo venivo invitato a scendere, come una volta quando l’autista mi chiese il biglietto, lo prese e lo gettò per terra invitandomi ad uscire. Partì bruscamente un attimo prima che iniziassi a scendere e rischiai di cadere quando toccai terra.
Presi l’abitudine di muovermi a piedi anche se dovevo raggiungere l’altro capo della città. Ad ora tarda, bagnandomi ed infangandomi, attraversavo il breve tratto di brughiera che mi separava dalla costa e con il favore dell’oscurità raggiungevo il lungomare, attraversavo come un’ombra la costa, facevo la spesa prima della chiusura e carico di borse ripercorrevo a ritroso lo stesso tragitto.
Anche l’attività di shopping non era tranquilla, capitava che di proposito mi investissero con il carrello, mi urtassero, mi spostassero con una spallata, simulando indifferenza, come se non esistessi e non mi vedessero. Il mio posto alla coda per pagare alla cassa non veniva rispettato e spesso dovevo aspettare che la fila si esaurisse per poter finalmente pagare ed uscire. Iniziai a fare uso delle casse automatiche ed a ridurre le mie visite ad una volta alla settimana, abitudine che conservo tuttora.
Lavorai per due supermercati. Nel primo mi misero a stirare camicie con alcune donne nel reparto stireria chiuso ai clienti, finché un giorno mentre ero solo fui quasi aggredito da un manager che non avevo mai visto prima di allora e che entrando nella stanza mi prese alla sprovvista iniziando a gesticolare come un ossesso, agitato e con scatti improvvisi, come un soldataccio nazista, e mi ordinò di andare a casa, prendere un rasoio e tagliarmi la barba e che solo allora sarei potuto tornare al lavoro. In seguito riflettei sul fatto che probabilmente le donne con cui lavoravo, e con cui mi avevano messo perché verosimilmente per loro non ero uomo a sufficienza per condividere con altri uomini spazio e mansioni, si erano sentite turbate dalla mia barba, come forse un segno di virilità sul mio volto, e si erano rivolte ad una autorità per rimuoverlo. Risposi che se me ne fossi andato non sarei più tornato e così feci. Il manager principale di quel supermercato era una donna.
Durante quella esperienza lavorativa avevo conosciuto una donna del Friuli, impiegata come cassiera, che iniziò a confidarmi la sua angoscia e disperazione per dover lavorare in un luogo dove tutti la trattavano male, erano violenti e approfittavano del fatto che fosse sola per imporle una paga misera e turni di lavoro massacranti. Mi disse in confidenza che aveva ottenuto un appartamento dal governo per un affitto simbolico in cui erano incluse le spese per gas, luce ed acqua. Le era bastato andare nell’ufficio preposto all’assegnazione delle case, dichiarare il motivo per cui voleva cambiare e che a me sembrò futile, compilare un modulo e aspettare un paio di settimane. Conoscendo i miei seri problemi con gli studenti con cui condividevo l’alloggio universitario, predisse ingenuamente che avrei ottenuto un appartamento anch’io e mi accompagnò nell’ufficio presso cui si era a sua volta recata. La seguii con curiosità e un po’ del suo ottimismo. Venni accolto con malcelata ilarità e fastidio da due funzionari, un uomo e una donna, che con formalità presero il mio modulo ed aspettarono che uscissi guardandomi con curiosità e divertimento. Non ero una donna. Per quanto urgenti e gravi fossero le mie condizioni non avrei ottenuto considerazione, dato che il criterio usato per l’assegnazione delle abitazioni era puramente sessista. Di lì a poco avrei usato questa verità per procurarle l’aiuto finanziario che le serviva per tornare in Italia: mi recai alla chiesa di Scozia dove operava un ministro di sesso femminile americano e femminista, e le chiesi incontrare e ascoltare quella donna. L’incontro avvenne, ci fu una donazione di denaro e la mia connazionale riuscì a tornare in Italia. Quando tempo dopo mi trovai nella situazione di non riuscire più a resistere e restare in quella città e nella necessità di doverla abbandonare presto, mi rivolsi anche a quel ministro che mi guardò con commiserazione, mi disse che quelli come me non si sarebbero trovati bene in alcun luogo e non mi aiutò.
Muovermi a piedi e solo in quella città poteva essere pericoloso. Un paio di volte riuscii a sfuggire per miracolo a gruppi di uomini che iniziarono a seguirmi insultandomi, invitandomi a tornare da dove venivo, lanciando una volta bottiglie vuote di birra ed affermando che non volevano me o quelli come me nella loro città.
Un uomo tentò di investirmi mentre attraversavo la strada. Deluso che fossi riuscito ad evitarlo e probabilmente punto nell’orgoglio dal tentativo fallito, fece inversione di marcia ed iniziò a seguirmi dopo che mi riparai sul marciapiede. Dopo un po’ scese dalla macchina e cercò di raggiungermi a piedi ma lo distanziai e quando attraversai nuovamente la strada per confonderlo risalì in macchina e continuò a seguirmi per interi quartieri, Cercai allora riparo in un bar dove spiegai la situazione ad un gruppo di operai che spontaneamente mi offrirono da bere e mi accompagnarono fuori dove insieme aspettammo che l’aggressore decidesse a desistere e se ne andasse. Quando lo fece, uno di loro mi accompagnò anche per un considerevole tratto di strada. Era la prima volta che ottenni soccorso in una situazione di disagio e godetti di manifestazioni di sincera solidarietà.
Nel parco che ero solito attraversare per raggiungere il mio alloggio approfittai di una giornata di sole per sedermi ad un tavolo di legno in un punto isolato, per studiare in tranquillità. A pochi metri da me il fiume Don scorreva con la solita placidità. Assorto nella lettura non mi accorsi che un uomo con un cane al guinzaglio si stava avvicinando furtivo e silenzioso. Quando ne avvertii la presenza sembrava badare al cane, e con una certa flemma stazionava sulla riva poco oltre dove mi trovavo. A pochi metri di distanza fece bere il cane. Notai altri due uomini fermi ad una certa distanza, sul ciglio della strada, che fingevano disinteresse e di essere ad altro affaccendati. L’uomo con il cane cominciò a parlarmi cercando di entrare in confidenza, osservando che era una bella giornata, chiedendomi poi da dove venivo e se mi recavo spesso nel parco. Mentre rispondevo con tranquillità alle domande cominciai a riempire lo zaino e ad alzarmi. Mi accorsi che gli altri due uomini si erano avvicinati e bloccavano la via. Con un gesto deciso e improvviso l’uomo a me vicino fece entrare il cane nell’acqua e me lo scagliò contro. Indossavo una giacca invernale che mi protesse dall’assalto ma si inzuppò dell’acqua del fiume. Per un motivo a me ignoto, quell’ambiguo scozzese, dopo qualche interminabile istante durante il quale ero stato messo con le spalle al muro, interruppe l’attacco del cane e continuò con la stessa confidenza e freddezza a chiedermi se mi trovavo bene nella loro città e per quale motivo vi ero arrivato. Cercando di recuperare la calma e la compostezza risposi che ero uno studente e per istinto alla successiva domanda ai tre uomini ora vicini risposi mentendo che ero un novizio e studiavo religione. La mia risposta sembrò suscitare interesse ed ebbe l’effetto di far calare la tensione, e i due uomini mi concessero maggior spazio allontanandosi di qualche metro dopo un cenno d’intesa. Il capo branco continuò a chiedermi perchè avevo scelto quel percorso di studi e risposi genericamente che volevo essere di aiuto alle persone. Dichiarò di ammirare la mia scelta, mi salutò e si allontanarono. Mi sentivo umiliato, fradicio e disperato. Non avevo nessuno da cui ricevere conforto né c’era un luogo o un riparo ove potevo sentirmi al sicuro. Riuscii a pulire e a recuperare l’uso di quella giacca, la mia unica giacca invernale.
Condividere l’alloggio universitario con persone di estrazione sociale diversa, maldisposte nei miei confronti, razziste e violente è un’esperienza che, per quanto cercassi di resistere e combattere, alla lunga fu sfiancante e avrebbe compromesso il mio equilibrio mentale. Da solo non potevo offrire grande resistenza ai reiterati attacchi che subivo, e nessuno sembrava avere interesse a creare legami di una qualche natura con un disgraziato che non sembrava avere nulla da offrire. Era più facile prendere le parti più convenienti, perciò i miei opponenti ingrossavano le fila ed io mi trovavo spesso in condizioni di inferiorità numerica. Ho subito aggressioni verbali e minacce fisiche, e non mi sentivo al sicuro neanche dietro la porta chiusa della mia camera, dato che veniva spesso scossa da calci e pugni, e mi accorsi un giorno della mancanza di alcuni oggetti personali. Chiesi un colloquio con il servizio di sicurezza del campus ma sembravano considerare la situazione come un esperimento sociale e dovetti affrontare un gruppo di tre giovani donne che con la bava alla bocca mi accusarono di essere un bugiardo e di non credere ad una parola di ciò che dicevo, denigrandomi con rabbia e malcelato, subdolo godimento, deliberatamente crudeli e sadiche nel riconoscere e deridere segni di sofferenza.
Cambiai alloggio quattro volte nei due anni che passai ad Aberdeen e il motivo che mi spingeva a cambiare era sempre la violenza, improvvisa, dopo un breve iniziale periodo di convenienza che forse solo qualche remoto precetto religioso contribuiva a mantenere.
Il campus del King’s college è molto esteso, una specie di città nella città e con equilibrio architettonico si fonde gradualmente con Old Aberdeen. C’è continuità non solo fisica tra l’università e la città, che io avvertii ben presto. Alcuni tra gli studenti maschi che incontravo, in numero sempre più elevato con il tempo, obbedendo ad impulsi improvvisi e a me ignoti, cambiando quello che sembrava il loro percorso o staccandosi dai gruppi di altri studenti con cui discorrevano, si dirigevano verso di me in segno di sfida e dando l’impressione di volermi urtare, arrivati a distanza breve mi urlavano in faccia eccitando i compagni. Le studentesse mi evitavano come un appestato oppure, quando erano supportate da un certo grado di prestanza fisica o baldanza dovuta alla compagnia, esibivano un comportamento simile, spesso ancheggiando vistosamente, come ad esibire in spregio un’offerta proibita. Questi comportamenti crebbero in frequenza con il tempo.
In aula cominciai ad osservare un altro comportamento che a me sembrò inizialmente peculiare e bizzarro ma che a poco a poco produsse il risultato di emarginarmi. Al mio avvicinarmi, anche solo per occupare un posto vacante adiacente ad una o ad uno di loro, le studentesse cominciavano a tossire vistosamente nella mia direzione coinvolgendo le vicine, e gli studenti si schiarivano la voce sonoramente, con impeto, avvicinandosi in modo che potessi sentire bene. Il loro impegno a dimostrarmi che ero sgradito, per mio logorio mentale colse presto il segno e presi l’abitudine di occupare l’ultima delle ultime file vuote. Una delle studentesse cominciò a provocarmi replicando il comportamento che quelle donne esibivano all’aria aperta, e dato che esibivo a mio turno indifferenza ai suoi plateali e coordinati tentativi, per ritorsione, insieme ad uno studente che si era fatto notare per le sue idee estremamente conservatrici, prese l’abitudine in segno di sprezzo di impadronirsi del posto che io ero solito occupare. Cominciai a sentirmi braccato e il problema di cercare un posto relativamente tranquillo cominciò a diventare un tormento. Nessuno di loro mi rivolse mai una parola.
Lo fece cogliendomi di sorpresa una studentessa di psicologia e sociologia di 25 anni che proveniva da Edimburgo, piuttosto decisa, diretta e disinvolta. La mia prima impressione è che fosse piuttosto fredda e razionale, ma i suoi tentativi di essere amichevole, il comportamento educato e corretto nei miei confronti, uniti al fatto che ero e mi sentivo solo e vulnerabile, riuscirono nel suo intento e mi aprii a quella comunicazione i cui termini erano dettati da lei fin dall’inizio. Cominciammo ad uscire insieme e sembrò adoperarsi per rendere i nostri incontri interessanti e piacevoli, anche se avevo l’impressione di essere osservato. In sociologia è chiamata ‘participant observation’. Alla fine del semestre mi consegnò la relazione finale del suo studio sulle differenze di comportamento tra uomini e donne, con un disegno in cui aveva evidenziato le aree del cervello riservate a specifiche funzioni. Mi confidò che ognuna delle nostre uscite era programmata sulla base dei capitoli di un libro, organizzati per tema: competizione, abilità fisiche, ragionamento, romanticismo. Sfogliò le pagine di quel libro mentre parlava. Mi guardò negli occhi e mi chiese se veramente pensavo che facesse su serio con uno come me e si allontanò con il gruppo di amici con cui mi aveva avvicinato.
Quando, pochi giorni dopo il mio arrivo ad Aberdeen, consegnai al mio tutor la lista delle materie cui intendevo partecipare per completare il numero di crediti richiesto, tra le mie scelte coscienziose, considerando che avrei studiato antropologia, c’era anche un corso di gender studies. Tra i partecipanti c’erano al massimo cinque studenti di sesso maschile, prevalentemente compagni di alcune studentesse, che erano invitati a dichiararsi fedeli alla causa femminista come gesto di sottomissione necessario per sopravvivere, condizione che accettarono con convinzione. Essendo maschio, immigrato, povero e solo ero un bersaglio grosso e facile, e non degno di essere considerato come gli altri per un eventuale arruolamento. Non ero una persona e mi era già stata assegnata la parte di vittima sacrificale. La docente era una donna corpulenta, dall’oratoria molto enfatica e gestuale, saliva sul palco e si faceva notare per la consuetudine di accompagnare le sue declamazioni con movimenti rapidi e bruschi delle braccia, per l’uso studiato della retorica, per le pause ad effetto con cui interrompeva dopo toni accesi la progressione di un discorso e per lo sguardo così acceso che sembrava febbricitante. Raccontava di come gli uomini avessero da sempre oppresso, sottomesso e ridotto in schiavitù le donne e di come per le sorelle fosse arrivato il momento del riscatto. Quel corso era un veicolo della campagna femminista più bieca e priva di orpelli diplomatici. Si avvertiva un concerto di emozioni scorrere tra le studentesse che in sintonia rispondevano in coro agitandosi, alcune quasi tremando di emozione. Alle spalle avevo sempre una squadraccia di giovani donne tra le più attive e carismatiche che si raccoglievano apposta per controllarmi ed infastidirmi urlandomi dappresso, accompagnando le loro esclamazioni con manate sul banco. Fummo divisi in gruppi di circa dodici studenti presieduti da quella docente, scelta che io colsi colme un’opportunità per esprimermi. Fui ignorato a tal punto che il mio lavoro non venne mai ritirato e alla fine del corso ottenni una votazione che fu talmente negativa da emergere come esempio tra le altre. Una di quelle studentesse, chiamandomi per nome e parlandomi per la prima volta, mi fece notare con ironia e intima soddisfazione della facilità di come riuscisse ad ottenere crediti positivi.
Feci ricorso al tribunale dell’università per denunciare l’accaduto. L’udienza fu una farsa, durante la quale fui accusato da una donna tra l’ilarità generale di essere ambizioso, come se l’ambizione nel mio caso non potesse essere consona. Tra i giudici, oltre a quella donna c’era il direttore del dipartimento di storia alle cui maggiori responsabilità quella docente il semestre successivo fu promossa e trasferita.
Il docente di antropologia accolse ed infiammò i sentimenti della classe accusandomi di stregoneria, ed un giorno per burla coordinò una specie di rituale esorcistico improvvisato, con gesti che gli studenti e le studentesse coinvolti mi rivolsero contro. Fu accusato di essere ‘anti british’, solo perchè non ero british, un corpo estraneo in quel tessuto coeso.
Riuscii a resistere circa un anno e poco più del primo semestre del secondo anno e, dopo che un giorno alcuni studenti in aula mi circondarono bloccando l’uscita dai banchi e iniziarono a pestare i piedi per terra, i pugni sul banco e ad urlarmi addosso, cominciai ad avvertire i segni della stanchezza, a perdere lucidità e a sentirmi logoro e vinto. Per inerzia restai ad Aberdeen ancora qualche mese, diradando le frequenze nei miei corsi di studio. Dopo l’ennesimo episodio di intolleranza nell’alloggio condiviso mi risolsi ad abbandonare la città e a tornare in Italia. Erano passati quattro anni dalla mia partenza.
Dopo pochi giorni dal mio arrivo ebbi quello che fu definito un episodio psicotico, in seguito a profonda disperazione e amarezza, rimasi per ore in stato catatonico e di lì a poco iniziai ad assumere psicofarmaci. Ancora oggi soffro di crisi di ansia e attacchi di panico, e mi guardo sempre alle spalle quando entro in un mezzo pubblico o in un supermercato.
Non sono mai riuscito a comunicare ad amici o parenti il pieno significato di quanto avevo vissuto, un film riesce a muoverli di più del mio racconto, come se la loro coscienza si rifiuti di credere alla realtà del mio messaggio. Non sono riuscito a convincerli che l’emergenza riguardo a certe questioni come il razzismo e l’attacco ideologico non è solo un argomento per un film o un libro di storia, e che tutti, inconsciamente, possiamo diventare i burattini di quel sistema delle cui azioni ci dichiariamo inorriditi all’uscita dalla sala cinematografica.
[1]http://www.dailymail.co.uk/femail/article-2649024/Monster-mother-A-birth-control-pioneer-revered-parenting-guru-But-Marie-Stopes-treated-son-died-week-abominable-cruelty.html
[2]http://www.vision.org/visionmedia/biography-adam-smith/868.aspx
[3]http://www.scotsman.com/news/aberdeen_is_worst_city_for_racism_1_801768
Fonte: http://www.linterferenza.info/lettere/predatori-produttori-coscienze-la-vulnerabilita-dei-piu-deboli/
2 Commenti
Pubblichiamo questa lettera di Marco Lobbia che ci racconta la sua storia, la vicenda della sua vita, per quella che è stata, nuda e cruda. E’ molto lunga, né poteva essere altrimenti, ma vale veramente la pena di leggerla tutta, fino in fondo, e sono certo che nessuno si annoierà. A me personalmente, mentre la leggevo, è cresciuto un sentimento di rabbia ma al contempo anche di forte compartecipazione emotiva.
Parliamo spesso di come ogni forma di coscienza e identità di classe sia stata scientemente distrutta, e insieme ad essa, di come anche la condizione individuale di ciascuno ne abbia avuto a soffrire, della disperazione che questo processo di disgregazione sociale ha prodotto in tanti.
La storia di Marco è quella di un proletario, immigrato e maschio che è stato discriminato in quanto tale. Cioè in quanto proletario, immigrato e maschio.
Aggiungo solo che sono veramente felice che Marco abbia scelto il nostro giornale per raccontare la sua storia. E’ un segnale importante che ci dice quanta umanità si stia raccogliendo intorno a noi e con quanta umanità stiamo lavorando.
Suggerisco di cuore al nostro nuovo amico e compagno di fare di questo suo racconto un vero e proprio libro.
Buona lettura a tutti/e.
Fabrizio Marchi(Quota) (Replica)
Desidero fare i miei complimenti a Marco per il suo racconto ma soprattutto per il suo coraggio… io al posto suo leggendo tutto quello che ha dovuto passare avrei “gettato la spugna” molto prima, anzi, probabilmente non sarei neppure partito in quanto i problemi che lui ha purtroppo accusato al suo ritorno, io ho iniziato ad averli a venticinque anni e mi hanno pregiudicato la vita. Oggi dopo lustri di cure a base di psicofarmaci, ansiolitici, etc… supportato da sedute di psicoterapia mensili, sono migliorato anche se non guarito in quanto queste malattie sono difficilissime da curare e poi in continuo aumento; pure io penso spesso che mi sarebbe piaciuto andare a fare esperienza all’estero ma verso i vent’anni, però non ne ho mai avuto il coraggio e sono sempre rimasto nella sua stessa città, quella Genova che purtroppo peggiora sempre più e per gli studi, ho dovuto interromperli pure io non solo perchè poi mi accorsi di non esser portato ma perchè vi erano preferenze di classe da parte di professori ma, in particolare di una professoressa che fece di tutto per farmi abbandonare il liceo e poi i compagni di classe da cui mi sono sempre dovuto difendere in quanto vi era una specie di “nonnismo” o ostracismo ingiustificato nei miei confronti e questo fin dalle classi elementari, situazione che mi ha creato moltissimi traumi che mi affliggono ancora ora, nei sogni ma pure per strada e che si sono tramutati in un sentimento di “ostilità” verso il prossimo ben che io sia sempre stato di natura buono e pacifico e concludo con il dire che pure il rapporto con l’altro sesso, a parte qualche sporadica occasione dove pensavo di aver trovato pure “l’anima gemella”, ha avuto problemi perchè quelle che incontravo (ed incontro pure ora!) prima di tutto vogliono sapere cosa possiedo, che lavoro faccio, se vivo da solo, etc… salvo poi “darmi il benservito” se una o piu’ di queste cose non gli va bene… tanto che ho quasi perso le speranze in quel senso ma, come dice il proverbio “meglio soli che male accompagnati!”.
Alessandro(Quota) (Replica)