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22 Gen 2021  |  0 Commenti

Sul “Giusfemminismo”

In uno studio del 2019,   ( https://www.academia.edu/40807319/La_prospettiva_giusfemminista ) Giulia Giannotti (Università di Firenze- giurisprudenza), dopo una sintetica panoramica del rapporto intercorso nel tempo fra il femminismo (inteso in senso lato, quindi in tutte le sue articolazioni) e il diritto, tenta di dare una definizione, o meglio di indicare lo scopo e i campi di applicazione, di ciò che definisce Giusfemminismo.

Per l’autrice, << la definizione del giusfemminismo quale teoria critica del diritto, la potremmo presentare come il ripensamento del diritto in un’ottica inclusiva di diverse soggettività, che porta allo smantellamento della presunta neutralità delle norme di legge, e più in generale del diritto. Questa definizione è perlopiù comprensiva delle diverse tesi sostenute dalle femministe dell’eguaglianza e della differenza, e ha il merito di evidenziare il forte nesso che intercorre tra femminismo, raggiungimento della libertà femminile, e il diritto in generale. >>

Riprendendo le tesi della sociologa Carol Smart, tre sono le fasi che caratterizzano il rapporto fra femminismo e diritto, riassumibili negli slogan: <<il diritto è sessista, il diritto è maschile, il diritto è sessuato. >>

–  IL DIRITTO E’ SESSISTA . La prima fase è contraddistinta dalla non eguaglianza sul piano formale dei sessi, in funzione della quale le donne erano discriminate e impossibilitate per legge a svolgere certe professioni, e perciò confinate nella sfera privata. A cavallo fra il 1700 e il 1800,  e fino alla metà del XIX secolo, le rivendicazioni del femminismo della prima ondata, che definisce egualitaria,  avevano come obbiettivo il raggiungimento della piena parità giuridica in tutti i campi fra donne e uomini, e la dimostrazione che  << l’inferiorizzazione delle donne non è un dato di natura ma una costruzione storica, sociale e culturale.>>

In questa fase, argomenta la Giannotti

<<il diritto è da una parte la fonte delle diseguaglianze e del confinamento delle donne alla sfera privata, ma dall’altra è anche lo strumento dell’emancipazione perché l’obiettivo di rimuovere le disuguaglianze formali si può raggiungere attraverso riforme giuridiche, abrogazioni e introduzione di nuove leggi.>>  Questa fase termina alla metà del Novecento, allorchè  << con la dichiarazione Universale dei diritti umani (1948) e le Costituzioni europee novecentesche, possiamo dire che l’eguaglianza formale è stata raggiunta.

– IL DIRITTO E’ MASCHILE. La seconda fase. E’ quella del femminismo della differenza, inteso ad esempio da Virgina Woolf  come alterità paritetica.  Il diritto viene criticato nella sua struttura, in quanto di per sé inadatto a ottenere la libertà femminile, che non può prescindere da una liberazione anche linguistica e sessuale>>. Per La Libreria delle donne di Milano, <<Non esistono leggi che possano dare valore alla sessualità femminile  se questa non è riconosciuta socialmente>>.

Dunque la norma giuridica è efficace se recepisce i valori morali e sociali già vigenti nella società, ma non li crea essa.  E’ così rovesciata la visione giuspositivista che affida alla norma il compito di formare, forgiare, quei valori sociali che afferma e che finiranno per essere accettati/fatti propri dal corpo sociale.

<<È in questo punto- scrive la Giannotti-  che Carol Smart situa la denuncia del diritto come maschile: qui il diritto è diventato sì obiettivo e imparziale, ma questi due principi sono a loro volta maschili, costruiti dall’uomo e per l’uomo.>>  Ne discende che <<.. si tratta di smantellare l’intero sistema giuridico. Questo è l’obiettivo delle femministe della differenza: creare un sistema giuridico basato sull’esistenza di una differenza sessuale (intesa come differenza naturale e originaria dei due sessi, senza il riconoscimento della quale l’eguaglianza sostanziale non sarebbe raggiungibile) . >>Si tratta cioè di <<di abbandonare quel soggetto maschile quale unico soggetto di riferimento del diritto e di trovare un diritto in grado di rappresentare i due generi.>>

<<Abbiamo quindi individuato- prosegue-  le prime due modalità in cui, storicamente, il femminismo ha considerato il diritto: in una prima fase il diritto è stato l’ostacolo e anche lo strumento per superarlo, in una seconda fase ne è stato individuato l’intrinseco, sostanziale, maschilismo. >>

IL DIRITTO E’ SESSUATO

Nella terza fase del rapporto fra femminismo e diritto  le <<strategie sono meno rigide, considerano l’eguaglianza sostanziale e le azioni positive per ottenerla. L’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione sancisce il principio di eguaglianza sostanziale: “ È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Come sappiamo, l’eguaglianza sostanziale del secondo comma è funzionale al raggiungimento dell’eguaglianza formale del primo comma, e implica dei trattamenti differenziati tra soggetti differenziati per rimuovere il più possibile le diseguaglianze. Applicare questo articolo della Costituzione al femminismo ha portato l’Italia sulla via della normazione al fine di risolvere e rimuovere le diseguaglianze >>. <<Sono state introdotte nell’ordinamento giuridico, norme positive che mirano a promuovere l’eguaglianza sostanziale (e non più meramente formale, cioè, si cerca di rendere l’eguaglianza formale effettiva) tra uomini e donne, trattando le donne diversamente dagli uomini.>>, come le quote rosa e le norme a tutela della maternità. In questo caso, il diritto ri-diventa strumento, grazie al quale, tramite azioni positive, si possono rimuovere le diseguaglianze. Tuttavia ciò pone un dilemma, evidenziato dalla giurista Martha Minow , secondo la quale <<l’uso di azioni positive o meno comporta un paradosso. Da una parte, se le leggi sono solo “sex-blind”, cioè leggi di parità (che trattano in modo uguale situazioni differenti, e quindi potenzialmente creatrici di situazioni di ingiustizia sostanziale), la differenza rimane, e l’eguaglianza sostanziale non è garantita. D’altra parte invece, con la promulgazione di leggi cosiddette “sex-responsive”, cioè di azioni positive che operano un approccio differenziato per il raggiungimento di un’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, allora si pone un problema: le donne sono assimilate a una minoranza che va aiutata, a una categoria sociale ‘problematica’ che necessita politiche speciali, e così intrinsecamente si conforta l’idea di un diritto maschilista, fondato su un paradigma di riferimento maschile. […] Quando si va a favorire una classe sociale invece di un’altra con politiche attive, non solo questa sarà considerata una classe più debole che necessita tutela, come abbiamo già detto, ma anche la classe opposta (gli uomini in questo caso) si sentirà ingiustamente svantaggiata. >> La questione della maternità serve per evidenziare il doppio problema, come rilevato da Martha Fineman.  In forza del solo principio di uguaglianza formale, la donna risulterà penalizzata, ma d’altro canto le politiche attive rinforzano  <<l’idea che le donne si devono occupare dei figli, ma anche che le donne sono lavoratrici “anomale” rispetto all’uomo, che continua a restare il parametro di riferimento giuridico […] Quindi il problema sta qui: se lo standard maschile di riferimento non viene decostruito, la differenza continuerà a essere considerata diseguaglianza. >>

Sulle azioni positive, la filosofa Catharine Mackinnon  si pronuncia  in

<<‘favore’ del diritto, ricordando che è l’unico strumento attraverso il quale si possano fare passi avanti: senza di esso, le ingiustizie diventano invisibili e irremovibili. Lo Stato, secondo Mackinnon, deve essere un organo responsabile e capace di difendere le donne senza per questo metterle sotto tutela nei confronti della norma che sarebbe l’uomo. Per concludere sull’uso del diritto, e più particolarmente di azioni statali positive che operano un approccio differenziato, possiamo affermare che il potere della legge rimane comunque lo strumento più efficace di emancipazione, e che quindi lo Stato,  che detiene il potere legislativo, deve essere trasformato in un organo giusto e imparziale, responsabile nell’attivazione di queste politiche attive, e soprattutto in grado di contribuire, come vedremo, alla decostruzione di un parametro di riferimento giuridico identificabile prevalentemente con l’uomo. >>

Rimane il fatto che se le politiche attive sono necessarie per evitare <<la trappola dell’uguaglianza formale,  bisogna capire se siano poi anche sufficienti per l’affermazione delle istanze femministe. Si pone qui il problema non più della necessità o meno di tali azioni, ma piuttosto della compatibilità strutturale del diritto così impostato con tali rivendicazioni.>>

<<In teoria, il soggetto di riferimento del diritto e delle norme da esso contenute, è l’Individuo. L’Individuo a sua volta è comprensivo delle diverse e molteplici categorie sociali presenti, e l’uso di questo soggetto come parametro di riferimento consente di assicurare l’eguaglianza di ognuno di fronte alla legge. Nella realtà l’Individuo di per sé non esiste: ogni componente della società è connotato dalle sue caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri. L’individuo astratto riesce a porsi come parametro di riferimento neutro e imparziale del diritto. In un’ottica giusfemminista, quello che ci possiamo chiedere è se questo Individuo, questo parametro di riferimento che assolve un’esigenza di isonomia (uguaglianza di tutti e tutte di fronte alla legge), sia veramente un soggetto neutro e imparziale, o se in realtà non sia prevalentemente un soggetto sessuato, e di sesso maschile.>>  Anche in questo caso l’esempio della maternità è esemplificativo.  <<Non sempre le donne hanno la coscienza di essere legislativamente sottoposte a un paragone intrinseco che non va di per sé. Se prendiamo ancora una volta l’esempio della donna lavoratrice incinta, bisognerebbe chiedersi perché l’eccezione, o l’anomalia, risiederebbe in questa figura e non, al contrario, nel lavoratore uomo, che invece rappresenta giuridicamente la situazione “normale”. La logica dovrebbe aiutarci a modificare radicalmente il punto di vista: la metà degli “individui lavoratori” intesi in senso giuridico, possono rimanere incinte. Quindi il nuovo obiettivo del femminismo sta proprio qui: smascherare la presunta neutralità dell’individuo titolare di diritti, e creare un nuovo parametro di riferimento, una ‘nuova normalità’, nella quale possano trovare spazio per l’affermazione dei propri diritti e libertà, sia uomini che donne in quanto tali. Per arrivare a questa trasformazione, che imporrebbe quindi una vera e propria ‘rivoluzione giuridica’, ovvero una nuova sottoscrizione del contratto sociale da entrambi i sessi, per l’assunzione di un Individuo, questa volta veramente universale.   >>

Fin qui, se sono riuscito a riassumerne bene le tesi, lo scritto della Giannotti. Ora, si pongono alcuni problemi,  proprio a partire da una contraddizione fondamentale.

1) Se è pensabile un individuo, questa volta veramente universale, allora il contratto sociale sottoscritto da entrambi i sessi, dovrà necessariamente prevedere norme e regole fondamentali uniche, valide per l‘individuo universale, sia esso maschio o femmina. Siamo cioè nel campo della piena uguaglianza formale, del resto, per ammissione della stessa autrice, già raggiunto. Senonchè si dice anche che che l’individuo di per sé non esiste. Anzi, ci si spinge così avanti da scrivere che << ogni componente della società è connotato dalle sue caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri>>. Non vale neanche, dunque, la bipartizione nei due grandi gruppi femmine/maschi,e ogni individuo è visto come un microcosmo incommensurabile. Se dunque non esistono né  l’individuo astratto, e nemmeno il maschio e la femmina come archetipi portatori di esigenze, caratteri psichici, bisogni diversi e nascenti dalla diversità dei corpi, ne dovrebbe derivare, per logica conseguenza, non un diritto che tenga conto della bipartizione fondamentale fra i sessi,  ma un diritto frammentato per tanti quanti sono gli individui, con buona pace dell’individuo universale, della logica e della realtà concreta.

2) Dunque sarebbe in errore anche il femminismo della differenza che perora un sistema giuridico che tenga conto della differenza sessuale. Che però non si capisce come dovrebbe essere declinata, dal momento in cui le norme che tengono conto delle esigenze naturali delle donne, come la maternità, vengono rigettate in quanto rimarcherebbero una debolezza  (ma perché, poi, debolezza e non semplicemente specificità di cui tener conto?) intrinseca. La soluzione viene indicata nella decostruzione dello standard maschile, e con una diversa impostazione del diritto.

Bene, ma quale impostazione del diritto, con cosa sostituire lo standard maschile,  e con quali effetti pratici,  non è dato capire, data la confusione e sovrapposizione di concetti.  Non esiste l’individuo astratto ma esiste quello universale , senza che si specifichi la differenza. Non esistono il maschile e il femminile in sé, ma solo individui diversi, dunque necessariamente portatori di standard soggettivi e unici. L’eguaglianza formale è una trappola, ma lo è anche la diversificazione normativa.

3) Si insiste sulla necessità di raggiungere una parità sostanziale oltre quella formale, per raggiungere la quale si perorano azioni positive, dunque non un diritto  che recepisca la realtà fattuale già vivente nel sociale ma che ne crei una esso, o almeno che spinga decisamente verso la direzione voluta, la parità sostanziale, che però, non casualmente,  non è definito cosa voglia dire in concreto.  a) Potrebbe voler dire che ogni campo dell’umano agire deve vedere donne e uomini in ugual numero. Potrebbe, ma in tal caso il presupposto è che donne e uomini abbiano le stesse inclinazioni, predisposizioni, passioni, gli stessi interessi concreti, le stesse caratteristiche psichiche e fisiche.  Bene, ma allora varrebbe come principio supremo quello dell’eguaglianza sul piano formale, e le azioni positive dovrebbero proporsi soltanto di colmare il gap, sempre e ovunque si manifesti, a vantaggio dell’uno o dell’altro sesso. Anche, dunque, in quelle attività dove c’è da rischiare, e non solo nei luoghi di potere e prestigio, veri o presunti che siano. Aspettiamo fiduciosi le prossime rivendicazioni in tal senso, finora non pervenute. b)Ma in tal caso cosa ne sarebbe della affermata differenza sessuale, in forza della quale si rifiuta come un trappola l’eguaglianza formale, con ciò delineando la possibilità di percorsi normativi differenziati?

  1. c) Un tentativo di soluzione lo leggiamo nell’affermazione, esemplificata nel caso della maternità, che una situazione normale dovrebbe essere quella in cui << la metà degli “individui lavoratori” intesi in senso giuridico, possono rimanere incinte.>>. D’accordo, ma poi, in concreto? Finchè anche i maschi non resteranno incinti, (e magari con la PMA , le “famiglie” omogenitoriali e la tecnoscienza ci arriveremo anche), occorre o non occorre prevedere norme che tutelino la lavoratrice in questione, come del resto già esistono? Se si, allora si ammette implicitamente la differenza, con quel che ne consegue. Si possono usare tutti i sofismi che si vuole, come potrebbe essere ad esempio quello di considerare la donna , invece dell’uomo, come parametro di normalità. Ma cosa cambierebbe di fatto? Nulla: quelle norme differenziate rimarrebbero sempre a tutela delle donne, con ciò contrassegnandone la mai troppo deprecata (da una parte del femminismo) diversità. Che è irriducibile in quanto dovuta alla natura, ma che non significa affatto inferiorità o superiorità. Se, al contrario, si pensa che in nome dell’eguaglianza quelle norme non debbano esistere, allora dove sta il problema?

Conclusione

Il Giusfemminismo, nel momento in cui intende tenere insieme, o mediare fra, istanze e principi inconciliabili, affoga in molte contraddizioni, dalle quali è impossibile uscire se non facendo proprio l’aforisma di Orwell ne La fattoria degli animali.  Nel nostro caso: “donne e uomini sono uguali, ma le donne un po’ di più” , qualunque cosa significhi.

Égalité | transiberiani


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