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Le parole del Rettore di Trento aprono a una nuova epoca, in cui i due generi scompaiono, in nome del genere unico:
“Nella stesura del nuovo Regolamento abbiamo notato che accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso avrebbe appesantito molto tutto il documento. In vari passaggi infatti si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile. Così, per rendere tutto più fluido e per facilitare la fase di confronto interno, i nostri uffici amministrativi hanno deciso di lavorare a una bozza declinata su un unico genere. Hanno scelto quello femminile, anche per mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione”.
D’ora in avanti gli incarichi saranno indicati tutti al femminile, anche se ricoperti da uomini. Sulla novità bisognerebbe riflettere: ribaltare la logica tradizionale, in base alla quale si indicava col maschile generico “uomini e donne”, per poi declinare i generi al maschile e al femminile nel concreto, non significa riprodurre lo stesso sistema ritenuto colpevole di tutti i mali peggiorandolo notevolmente? Nella cornice del tempo segnato dal complesso di Telemaco, ovvero dalla nostalgia del padre e del maschile, quali archetipi positivi della legge e del limite etico, puntare ancora una volta alla scomparsa dei generi non può che comportare un senso di disorientamento…
La vituperata formula maschile per indicare il maschile e il femminile in sé non ha nulla di discriminatorio e punitivo, essa è la modalità con cui si indicavano con un nome declinato al genere maschile l’umanità tutta. Tutti uomini e donne sapevano e sanno che è legge grammaticale della lingua nazionale tale modalità espressiva. Voler eliminare un espediente grammaticale riconosciuto dalla lingua italiana e usato dal linguaggio comune con una soluzione che esclude in modo riparatorio per una discriminazione grammaticale che non c’è mai stata che progresso è?
Dinanzi a università e scuole sempre più irraggiungibili per ragioni economiche e culturali per ragazzi e ragazze delle classi subalterne porsi tali problemi di ordine linguistico induce a notevoli dubbi sull’efficacia del provvedimento. Molti ragazzi hanno difficoltà a pagare le tasse e a trovare case in affitto a prezzi decorosi, ebbene il vero problema che ormai si elude è che la vera discriminazione è di ordine sociale, è il censo che sempre più spesso determina il futuro dei singoli. Non si sollevano dubbi, non ci sono proteste coordinate tra accademici e studenti per la giustizia sociale. Giustizia è riconoscere i generi, rispettare il merito delle persone e consentire, come la Costituzione italiana decreta e afferma, la possibilità per i capaci e meritevoli di frequentare le Facoltà universitarie e le scuole in base all’indole personale. Tutto questo sembra scomparso dalla politica e dai luoghi del sapere. Si potranno chiamare tutti gli incarichi al femminile ma le vere ingiustizie restano nel silenzio generale. Un’ ultima osservazione. Ci sono parole al femminile che indicano anche gli uomini. Umanità e persona sono due esempi rilevanti, cosa dovrebbero fare gli uomini? Dovrebbero intervenire per contestarne la validità? Si spera di “no”, in quanto la lingua italiana sta soffrendo per l’aggressione anglofona e per lo studio superficiale di cui è oggetto nelle scuole. Il declino di un popolo e di una civiltà lo si legge nella involuzione della sua lingua e nell’uso sempre meno comunitario e sempre più strumentale a scopi specifici. Su tutto questo una nazione dovrebbe interrogarsi per capire la direzione che sta prendendo. Dovremmo tutti riflettere sull’art. 34 della Costituzione:
“La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
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