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Paola Cortellesi, durante un ritrovo di futuri manager addestrati dall’università di Confindustria all’insipienza culturale dei dogmi di mercato, in nome del femminismo cieco, reazionario, tutto lustrini e paillettes dei nostri giorni, rovescia, con il classico sorriso compiaciuto dei piani alti, la realtà.
I sette nani erano operai minatori, sì quelli che entrano nei cunicoli e si ammazzano di fatica per due spiccioli ricoperti dal carbone, condizione emblema dello sfruttamento di un tempo, e mossi dalla solidarietà umana – quella common decency tanto decantata da Orwell che contraddistingueva i valori portanti della classe operaia – ospitarono una ragazza sperduta nella loro casa dove vivevano assiepati come sardine. Biancaneve, di rango aristocratico, mossa a compassionevole slancio di riconoscenza, si adopera per imborghesire l’abitazione.
Quindi per la Cortellesi e per tutte le donne hollywoodiane improvvisatesi attiviste, sette sfruttati si trasformano, in quanto maschi, in sfruttatori di una nobile, minacciata di omicidio commissionato da un’altra donna.
Bisogna comprendere bene qual è il significato recondito di queste improvvisazioni didattiche e quanto questo rovesciamento sia conforme al mantenimento dei rapporti di forza tra le classi sociali al tempo delle “liberaldemocrazie” di mercato. La cultura si genuflette nei confronti del potere, dell’Occidente che esporta civiltà a suon di pulizie etniche, che bombarda innocenti nel nome del progresso. Il femminismo dei nostri tempi è conformismo di regime e come tale va considerato.
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