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Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;
(Dante Alighieri)
Nei movimenti maschili si discute spesso, senza venirne a capo, sui motivi per i quali così tanti uomini, non capiscono, o si rifiutano di capire, quale sia la loro realtà; dal punto di vista sociale, quindi nel lavoro e in famiglia, e dal punto di vista psicologico, ossia in rapporto al femminile. Alcuni di essi, i così detti intellettuali, continuano a parlare e scrivere di insopportabili privilegi maschili, di persistente oppressione e discriminazione delle donne, di situazioni di disparità che devono essere sanate in ogni modo. Altri tacciono disorientati, percependo dentro di sé disagio di fronte alla narrazione pervasiva di un maschile privilegiato e oppressore e di un femminile oppresso e “innocente”; tuttavia non osano esprimerlo per timore di essere considerati sessisti e maschilisti, come avviene immancabilmente ogni volta che qualcuno osa proporre qualche frammento di una verità diversa da quella ufficiale di tutti i media e praticamente di tutte le forze politiche, di destra di centro o di sinistra ( per quel che possono valere ormai certe antiche distinzioni).
Senza ovviamente pretendere di aver scoperto chissà quale verità, vorrei avanzare un’ipotesi che, magari insieme ad altre, contribuisca a spiegare un fenomeno che esula da ogni forma di logica e raziocinio, che pure sono tratti caratteristici maschili, per situarsi invece nel campo dello psichismo, là dove il logos si arresta per fare spazio alle emozioni, ai sentimenti, insomma a tutto ciò che si muove nell’inconscio e che determina potentemente, ancorchè inconsapevolmente, i pensieri e le azioni umane.
E’ come se gli uomini fossero soggetti ad un incantesimo da cui non possono, o non sanno, o non vogliono risvegliarsi per guardare in faccia la realtà, e continuino ad illudersi di essere loro a determinare la direzione del “vasel” di cui parla Dante nel sonetto in esergo.
Partirei per questo tentativo di decodificare l’incantesimo da un fatto reale, inoppugnabile, che ha contrassegnato l’umanità fin dai primordi. Ai maschi, da sempre, sono toccati il compito e la funzione di esercitare la forza fisica, e quindi anche la violenza, coi connessi rischi di perdere la vita. Esercizio dal quale, al contrario, sono state sempre rigorosamente dispensate le femmine. Anche nelle antiche società matriarcali, o come le definisce Bachofen ginecocratiche, in cui le donne esercitavano grande potere, direttamente in prima persona o come potere di nomina (e quindi, corrispondentemente) di revoca della guida sociale maschile, l’uso della violenza per la conquista di territori altrui o per la difesa del proprio, per la protezione della propria famiglia o clan da minacce esterne, umane o animali come nel caso dei grandi predatori, o semplicemente per procurare il cibo con la caccia, è sempre stata cosa maschile. Le donne guerriere, in altre parole le mitiche amazzoni, rimangono nell’ambito delle proiezioni mitologiche e non trovano riscontro nelle ricerche etnografiche. E quand’anche fossero davvero esistite rappresenterebbero la classica eccezione che conferma la regola.
I motivi dell’incantesimo che colpisce gli uomini possono essere più di uno, anche in combinazione fra loro. Dal più semplice e naturale, il differenziale di forza fisica fra i sessi, a motivi più articolati come la funzionalità complessiva del lavoro di cura femminile (divisione sociale del lavoro) , oppure anche a ciò che potremmo definire l’istinto di conservazione della specie, in forza del quale la vita maschile è sempre stata considerata come più sacrificabile di quella femminile, potendo pochi uomini inseminare molte donne e garantire la sopravvivenza della specie stessa.
Quali che siano i motivi, rimangono i fatti. I maschi si sono assunti l’onere della violenza dispensandone le femmine, ossia proteggendole in senso ben più ampio di quello puramente fisico, nonostante che da parte di qualcuno ci si ostini a considerare questa dispensa come ulteriore prova di oppressione e prepotenza ai danni delle donne. Il punto è, a mio avviso, che l’esercizio della violenza fisica non comporta solo il rischio perdere la vita o di essere feriti gravemente dall’avversario (umano o animale che sia), ma è anche e forse soprattutto, doloroso e lacerante dal punto di vista psichico, a meno di pensare al maschio, come sembra essere di moda, come ad un soggetto in sé privo di pietas, un soggetto che può uccidere e uccidere con la più grande indifferenza morale o etica. Pensare in tal modo, inutile sottolinearlo, è non solo falso, ma si configura anche come vero e spregevole razzismo di genere che gerarchizza moralmente donne e uomini in soggetti superiori e inferiori.
La realtà ci racconta cose ben diverse, che possono essere esemplificate negli innumerevoli e commoventi episodi di solidarietà umana fra nemici durante la Grande Guerra (di cui è densa la memorialistica dedicata), quando ancora i soldati nemici si guardavano negli occhi durante gli assalti alla baionetta, o semplicemente ascoltavano i canti provenienti dalle trincee avverse che si fronteggiavano a poche decine di metri l’una dall’altra. Questi episodi, peraltro diffusi non solo nella Grande Guerra, dovrebbero a mio avviso costituire un importante capitolo della narrazione maschile di sé. E’ anche vero, tuttavia, che è difficile stare a contatto con la violenza senza farsene contaminare, cosa peraltro dimostrata da appositi esperimenti in cui uomini normali, ripetutamente ed opportunamente stimolati in ambienti ad hoc, perdono ogni freno morale e si trasformano in esseri feroci. Volendo far parlare il mito, le due figure a parer mio più emblematiche di questa lacerazione e dei rischi connessi, sono quelle di Ettore da una parte, l’eroe troiano che, causa l’ amore profondo nutrito per la moglie Andromaca e per il figlioletto, pur combattendo fino alla morte per la sua terra e quindi uccidendo, mai perde la scintilla di umanità che gli brilla dentro; e dall’altra Achille, il guerriero invincibile completamente pervaso dal “furor belli” fino a negare (e negarsi) ogni senso di umana pietà verso l’avversario ormai morto e verso il suo vecchio padre.
E’ per non cadere nel vuoto del nichilismo o della disperazione, che gli uomini hanno sentito la necessità di costruire oasi di pace e di innocenza in cui rifugiarsi per rigenerarsi, e in cui dare concretezza visibile all’idea del bene. Anche per questo, ritengo, la donna è stata esentata dall’esercizio della forza e della violenza, e protetta dalle sue contaminazioni. La sua bellezza e il suo fascino ben si prestavano, e ancora oggi si prestano, a fungere da catalizzatori di questa necessità psichica. Sono significative in tal senso le parole che pronuncia il protagonista del famoso romanzo di Christiane Rochfort , Il riposo del guerriero, << Io sono stanco. Fammi riposare. Tu sei il riposo del guerriero… Aiutami a vivere. Costringimi a vivere>>. Non, quindi, la femmina puro oggetto di spasso per il maschio come vuole il femminismo, ma al contrario sua ancora di salvezza, depositaria dell’idea di purezza e innocenza. La “donna angelicata” del Dolce Stil Novo è forse l’esemplificazione più famosa dell’attribuzione al femminile di queste prerogative, che è proseguita poi nei secoli successivi, spesso centrata e concentrata sulla figura della “madre buona” (“la mamma è sempre la mamma”), incapace di nuocere ai figli. Anche da ciò, e nonostante che proprio la mitologia racconti una verità ben diversa, nasce il mito dell’Innocenza femminile, alimentato dagli uomini e immediatamente fatto proprio dalle donne con falsa coscienza. Da qui anche il corollario di questa illusione ottica: la rimozione congiunta da parte di uomini e donne, del lato oscuro e divorante del femminile, e l’attribuzione di ogni comportamento deviante o a patologie personali oppure alla nefasta influenza maschile. Modelli e stili di comportamento femminili negativi, sarebbero insomma copiati dai maschi a causa della sottomissione culturale delle donne.
Jacques Camatte, studioso di origine marxista e non certo accusabile di disattenzione o ostilità alle istanze ed alle idee dei movimenti femminili, scrive (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_B_545_Camatte_5_Lettera.pdf) <<…..Tuttavia, la repressione non è scomparsa; cosí come non è scomparsa con la fine del patriarcato, e la situazione delle donne non è veramente migliorata. In realtà, ciò porterà ad esse nuove difficoltà, dal punto di vista esistenziale. Perché hanno perso un importante vantaggio che il patriarcato procurava loro, il sollievo dalla repressione assunta dagli uomini, il che ha operato una grande mistificazione. In precedenza esse potevano presentarsi come non agenti di repressione. Il che salvava il ruolo di madre. Aveva un effetto positivo sui figli, sui ragazzi per idealizzarlo, sulle ragazze per accedere a tale funzione. Ormai esse dovranno tener conto che di fatto, anche loro, reprimono, e questo da quando si è imposto il divenire di erranza. Ciò contribuisce alla messa in crisi del loro rapporto con gli uomini e in tal modo contribuisce al disvelamento della speciosi>>.
Ed ancora aggiunge a proposito del patriarcato in L’eco del tempo (https://revueinvariance.pagesperso-orange.fr/echo.html)
<<Siamo alla fine di un arco storico, e dobbiamo far capire che il patriarcato, almeno nella zona occidentale, finisce dentro il fenomeno del capitale; siamo già oltre. Con questo intendo dire che il capitalismo non è la fase finale del patriarcato, perché il patriarcato si dissolve al suo interno. Gli uomini hanno perso ogni forza e non possono più essere decisivi. Dopo aver fatto affidamento su di loro per il loro futuro e averne pompato la sostanza, il capitale può ora tendere a usare le capacità ancora sconosciute delle donne, non per metterle al “potere”, ma per rivitalizzarsi;da qui il grande pericolo del recupero di vari movimenti femministi.>>
Il Re, dunque, è nudo, e occorre prenderne atto coraggiosamente, anche se può portare dolore. Da parte femminile è necessaria, finalmente, una netta assunzione di responsabilità. Guardarsi allo specchio e riconoscere che è solo grazie agli uomini ed al tanto vituperato patriarcato che il consolatorio sentimento di innocenza è potuto nascere e svilupparsi fino a diventare un dogma dei nostri giorni, il presupposto non dichiarato perché scontato, di qualsiasi ragionamento sui rapporti fra i sessi. Occorrerebbe anche riconoscere che il capitalismo post patriarcale, da una parte mantenendo le antiche esenzioni di responsabilità e dall’altra chiamando le donne a recitare una parte di primo piano anche sul terreno economico e su quello pubblico, ha rotto il pur precario e asimmetrico vecchio equilibrio fra i sessi a tutto vantaggio del lato femminile; con ciò instaurando una gerarchia morale ineluttabilmente tendente a diventare anche materiale. La frase sulle donne che sanno fare tutto ciò che fanno gli uomini, ma meglio, questo e non altro significa, ben oltre la sua verità fattuale. Tuttavia nessuna assunzione di responsabilità da parte femminile, nessuna presa di coscienza che l’innocenza è solo una illusione ottica saranno possibili, se e finchè gli uomini non avranno rotto l’incantesimo da essi stessi creato e si costringeranno, finalmente, a prendere atto della realtà. Male e bene, colpa e innocenza, carnefice e vittima, non sono incarnati in un sesso o nell’altro, ma sono dentro ciascuno di noi. Non esistono un luogo fisico e uno spazio psichico esterni a noi stessi , deputati al riposo e alla rigenerazione di sé. . O meglio, possono esistere ma rappresenteranno sempre ed esclusivamente quella particolare persona, mai il sesso d’appartenenza in generale. Guardare in faccia la realtà è operazione razionale e realistica, qualità che certo non mancano ai maschi. Il fatto che in grande maggioranza non riescano a farlo, il fatto che non riescano a pensare anche se stessi come possibili depositari d’innocenza, il fatto che continuino ad assumersi colpe e responsabilità senza riconoscersi meriti, se da una parte testimonia la vocazione maschile all’universalità, dall’altro nuoce gravemente. Prima di tutto, ovviamente, agli stessi uomini, schiacciati per opera propria e per le accuse del femminismo da loro stessi incentivate e favorite, sotto il peso di una colpa irredimibile se non al prezzo della rinuncia di sè. Ma in realtà, oltre l’apparenza di una marcia che sembra irresistibile, nuoce anche alle donne. Abituate a sentirsi insieme vittime e superiori, diffidenza e sospetto nei rapporti con l’altro sesso (che di quei sentimenti sono il portato) bloccano spontaneità e fiducia, quindi condannano all’infelicità. Sarebbe ora che, proprio in nome di una autentica parità e reciprocità, come si dovrebbe fare fra adulti, gli uomini si decidessero a rompere l’incantesimo che li pietrifica, togliere le donne dal piedistallo dove le hanno innalzate e raccontare loro, finalmente, la verità per come la percepisce un maschio. Rinunciare alle illusioni è doloroso, ma storia e cronaca dimostrano che insistervi, alla lunga lo è ancora di più. Non ho soluzione se non, appunto la presa di consapevolezza maschile.
E se a un certo punto gli uomini dicessero alle donne, semplicemente <<arrangiatevi>>?
Fonte foto: Accademia Fabio Scolari (da Google)
7 Commenti
Segnalo l’ultimo, come sempre molto interessante, articolo di Armando Ermini…
Fabrizio Marchi(Quota) (Replica)
L’ultima frase è la risposta a tutto. Ormai si è capito che gli uomini non vogliono battersi per i propri diritti, quindi la soluzione è non fare nulla per le donne. Quindi niente matrimonio, niente figli, niente regali costosi, solo relazioni a tempo determinato evitando la convivenza che come sappiamo è stata equiparata al matrimonio. MGTOW
Jacopo(Quota) (Replica)
Ottimo.
E’ un auspicio.
Versante M. Si promuove una presa di coscienza, l’uscita dall’incantesimo ed il riconoscimento del lato luminoso della maschilità (l’ambito dell’innocenza)
Verante F. L’uscita dal racconto mistificatorio autocelebrativo e l’assunzione della piena responsabilità (ambito della propria colpa)..
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Sì, è auspicabile, sembra essere il solo duplice percorso che può condurre ad una Nuova Alleanza.
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Vedo difficile il tragitto maschile, quasi sovrumano quello femminile.
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L’interrogativo finale esprime quella che forse è la sola arma che ancora gli UU abbiano in mano per provocare una frattura nel bunker di cristallo in cui sono arroccate le donne occidentali (e non solo le Ariane): la minaccia dell’abbandono, non solo materiale.
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Espressa in termini finali (e perciò apparentemente cinici e spietati, ma psicologicamente significativi) eccola qui:
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“Fate le brave e andate solo in paradiso mentre rivendicate il diritto di andare dappertutto? Bene. Fate le cattive, finalmente, fate quel che vi pare: andate in paradiso, andate in purgatorio, andate all’inferno…”
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Intelligenti pauca.
Rino DV(Quota) (Replica)
Grazie ad Armando, per questo interessantissimo articolo.
Mario(Quota) (Replica)
a) Le donne guerriere sono esistite e sono documentate. Anche poemi epici, quali ad esempio la Gerusalemme liberata, ne parlano e in effetti nelle cronache arabe si nota la sorpresa quando a fine battaglia tra i morti si trova qualche donna. Non sono molte ma ci sono, molto interessante è invece una caratteristica ovvero sono vergini.
La verginità e quindi l’assenza di gravidanze o impegni verso la prole nata da poco permette alle donne che volessero farlo di combattere, (spero non sia necessario spiegare perchè una donna incinta o con un neonato al seno non possa combattere).
In questo articolo ho spiegato meglio la cosa
https://www.sublimia.it/storia/amazzoni.html
b) Io farei anche riferimento allo stress post traumatico che colpisce i combattenti e che si trova anche in racconti del passato.
i cavalieri medioevali sono risultati affetti dal disturbo post traumatico da stress secondo la ricerca di Thomas Heeboll-Holm dell’università di Copenaghen
c) il patriarcato non è una oscura entità maligna ma è semplicemente la caratteristica di una società in cui a prendersi cura dei figli sono i padri e il loro ramo familiare mentre nel matriarcato i figli delle donne sono a loro carico e a carico delle loro famiglie di origine.
https://www.sublimia.it/relazione-uomo-donna/patriarca-matriarcato.html
Ettore Panella(Quota) (Replica)
http://www.uomini3000.it/10069.htm
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22/1/2004
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Nella seconda metà dell’Ottocento, lo storico svizzero Johann Jakob Bachofen, sostenne che l’umanità delle origini era basata sul matriarcato, vale a dire sulla supremazia della femmina.
Si diffuse così la tesi che, prima di giungere all’organizzazione patriarcale, l’umanità avesse attraversato una fase matriarcale, in cui la vita era serena, pacifica ed egualitaria.
Le implicazioni di questa teoria non sono di poco conto: essa, infatti, ipotizza una naturalità del predominio femminile, che sarebbe poi stato sconfitto nel corso della storia a prezzo di una dura lotta tra matriarcato e patriarcato.
Essa, inoltre,”storicizza” il concetto di organizzazione sociale, dando al modello di famiglia un carattere culturale, determinato dalle condizioni socio-economiche prevalenti e non innato e universale.
Molti studiosi, attratti da questa ipotesi, ne hanno ricercato la conferma nei reperti archeologici, nei miti e nei testi antichi, riconoscendole una certa validità.
L’ipotesi matriarcale assegna alla femmina delle origini un ruolo di potere mai più riscontrabile nella storia, salvo in alcune piccole comunità cosiddette “primitive”, nelle quali si possono trovare ancora oggi, forme di “predominio” femminile.
(Si narra pure che nella metà dell’Ottocento, esistesse in Africa centrale, una tribù di guerriere femmine che venne successivamente sconfitta e massacrata in una feroce battaglia, da dei guerrieri maschi. Le vittime sarebbero state oltre 2000.)
La società matriarcale si sarebbe precisata in epoca Neolitica – all’incirca dal 12.000 al 3000 a.C., a seconda delle diverse aree geografiche.
Mentre gli uomini si dedicavano alla caccia, le donne, che raccoglievano le erbe e i frutti commestibili, avevano modo di osservarne i cicli di crescita.
Iniziarono così a conservare i semi e a tentarne la semina, sorvegliando lo sviluppo delle piante.
Man mano che la produzione aumentava, diventò possibile utilizzare i cereali come alternativa-integrazione alla carne, passando a un controllo consapevole delle risorse naturali attraverso l’agricoltura, che si andò sempre più perfezionando.
Le società nomadi dei cacciatori-raccoglitori si sono così progressivamente trasformate in società agricole stanziali, grazie anche all’introduzione dell’allevamento, attività, anch’essa inizialmente femminile, che garantiva alla comunità una sicura riserva di proteine.
Il procacciamento del cibo cessava quindi di essere un’attività basata soprattutto sulla forza – come nella caccia – e diventava di pertinenza delle femmine, che ora erano in grado di sfamare tutta la comunità, acquistando tra l’altro competenze che gli uomini non avevano.
Il monopolio delle riserve alimentari conferiva alla donna un nuovo potere all’interno della famiglia, che, come ipotizzano alcuni storici, si sarebbe dotata di un’organizzazione matrilineare, riconoscendo giuridicamente la discendenza materna, vale a dire il diritto di successione femminile.
Di conseguenza, le donne godevano di un enorme potere all’interno della società, al punto che si parla di una fase di predominio decisionale e politico femminile, detta ginecocrazia, dal greco “guné”, donna e “kratos”potere o matriarcato, il “potere delle madri”.
Secondo gli storici, le società matriarcali sarebbero state caratterizzate da un regime comunitario ed egualitario, basato cioè sulla messa in comune delle risorse economiche e sulla mancanza di gerarchie di potere e di distinzione dei ruoli.
L’idea di un’associazione tra potere femminile e regime comunitario deve essersi conservata a lungo nella memoria collettiva, come testimonia, tra l’altro, la commedia di Aristofane “Le donne dell’assemblea” rappresentata ad Atene nel 391 a.C., vale a dire molti secoli dopo la scomparsa del potere matriarcale nell’antica Grecia.
Nella commedia, le donne ateniesi, stanche delle continue guerre, decidono di prendere il potere e di cambiare le regole del gioco, come spiega la protagonista, Prassagora:”…farò che la terra appartenga in comune a tutti, e il denaro, e tutto ciò che ciascuno possiede. Poi, da questi beni comuni noi vi nutriremo, e metteremo tutta la nostra abilità ad amministrarli senza sprechi”.
[ L’idea che la visione femminile del potere sia di tipo egualitario, non competitivo e pacifista e quindi non aggressivo, è emersa ripetutamente nel corso della storia, come dimostrano alcuni grandi movimenti ereticali del Medioevo, in cui l’orientamento comunitario si univa a una forte influenza delle donne.
Le femministe degli anni Settanta hanno fatto proprio questo presupposto, sostenendo che l’identità ancestrale femminile ha un carattere ricettivo e protettivo, legato alla maternità e al bisogno di garantire sicurezza alla prole; da qui deriverebbe la maggiore disponibilità alla ricerca di soluzioni pacifiche nei rapporti interpersonali.
In questa prospettiva (dicono le femministe), le manifestazioni irragionevoli e conflittuali, al limite dell’isterismo, espresse così spesso dalle donne sotto forma di litigi, sfuriate, attacchi di rabbia e di ira irrazionale,sarebbero da ricondurre a una condizione di frustrazione indotta, a un’esasperazione dovuta all’emarginazione imposta dall’ordine dominante maschile.
Si tratterebbe dunque (dicono sempre le femministe) di una forma di compensazione reattiva, una pratica di adattamento a condizioni vissute come avvilenti e paralizzanti.
Del resto (aggiungono le solite femministe), la mancanza di autocontrollo, così ripetutamente rimproverata alle donne, non può certo essere considerata un carattere esclusivamente femminile, come dimostrano le tante guerre che da sempre affliggono l’umanità, guerre decise e condotte dagli uomini.
Dunque (concludono) l’irrazionalità femminile sarebbe soltanto una costruzione ideologica appiccicata alla femmina nel corso del tempo e non ascrivibile a una natura originaria.]
L’aumentato potere decisionale conquistato dalle femmine con il controllo delle risorse alimentari si manifestò anche all’interno delle strutture religiose, che cominciavano a delinearsi proprio in quella fase.
Sembra proprio che in molte aree del mondo le forme di religiosità più antiche fossero basate sui culti della Madre Terra o della Grande Madre e accompagnate da riti di propiziazione della fertilità monopolizzati dalle femmine.
Tali riti sono testimoniati dalle statuette votive neolitiche, tra cui spiccano le Veneri steatopigie(dai grandi glutei) o le divinità dalle molte mammelle, che simboleggiano la fecondità femminile.
Le donne diventavano così le uniche detentrici del rapporto con il soprannaturale, le esclusive depositarie dei misteri che legano Cielo e Terra.
Il potere femminile venne sancito da istituzioni politiche e sociali in modi diversi e in epoche diverse, secondo le differenti aree geografiche.
In particolare nel Mediterraneo esso sarebbe continuato fino all’età del bronzo e avrebbe caratterizzato anche la civiltà minoica, sviluppatasi a Creta dal III millennio e terminata attorno al 1500 a.C.
Al centro della religione minoica vi era una donna potentissima, Potnia, simbolo della forza generatrice femminile.
Il suo sposo, il “paredro”, svolgeva un ruolo puramente strumentale, in quanto aveva solo il compito di soddisfare sessualmente la Grande Madre, la vera tutrice della riproduzione della specie.
Il fatto che la principale figura religiosa della Grecia minoica fosse una donna assume un significato importante, poiché la struttura religiosa di una società plasma in larga misura il suo sistema di valori; per conoscere il ruolo della femmina all’interno di una determinata civiltà è importante capire come venga definito dalle credenze religiose in essa prevalenti.
E infatti, nella cultura cretese le femmine godevano di una posizione sociale privilegiata rispetto a quella loro riservata nelle altre civiltà coeve.
Le donne minoiche fruivano di una certa libertà di movimento, avevano il ruolo privilegiato di sacerdotesse, potevano amministrare il proprio patrimonio anche dopo essersi sposate, potevano ereditare da un congiunto e divorziare dal marito conservando la dote.
Non vi sono però tracce di una successione matrilineare, se non sporadiche.
Col passaggio dalla civiltà minoica a quella micenea, sviluppatasi a Micene attorno al 1450 a.C. e con il conseguente emergere della figura del guerriero, i caratteri culturali del mondo greco vanno via via modificandosi, trasformando radicalmente lo statuto sociale femminile.
Per concludere questa breve analisi su una supposta età dell’oro della femmina, nell’ambito della civiltà occidentale, bisogna ricordare che sulla sua effettiva consistenza esistono molti ma molti dubbi…
Recentemente, infatti, gli storici si stanno orientando verso un RIDIMENSIONAMENTO dell’IPOTESI MATRIARCALE (perché sono IPOTESI…), ritenendo più corretto parlare di comunità matrilineari, basate cioè sulla discendenza materna e non paterna.
Molti antropologi, poi, parlano del matriarcato in termini di “mito”, vale a dire di un’elaborazione fantastica, che rappresenterebbe proprio l’opposto della realtà, il suo inverso, una forma di appagamento immaginario, come quello espresso dalle favole..
L’idea di una società dominata dalle femmine sarebbe quindi, in questa prospettiva, un’inversione mitologica, un “mondo alla rovescia” generato dal bisogno di compensare una realtà brutale e frustrante.
Le donne, insomma, avrebbero elaborato una narrazione fantastica capace di ripagare, nell’immaginazione, le sofferenze subìte.
Non è quindi facile stabilire se il matriarcato sia una leggenda o una realtà.
Se è vero che in molte culture mediterranee si è a lungo mantenuta la memoria di un’ancestrale fase di predominio femminile che ritorna alla luce in occasione di alcuni riti misterici greci e romani riservati alle donne, è altrettanto vero che neanche nella società cretese vi sono sufficienti elementi per parlare di matriarcato; si può parlare, semmai, di condizioni che assegnavano alla femmina una considerevole libertà e dignità sociale.
Lo stesso mito delle Amazzoni, da molti considerato una prova a favore di un’età d’oro matriarcale, deve essere attentamente riconsiderato.
Il nome di queste femmine guerriere, che vivevano in comunità rigorosamente femminili, deriva da “a-mazos”, senza seno. Il mito, infatti, narra che esse tagliavano una mammella alle figlie affinché potessero maneggiare meglio la lancia e l’arco.
Per generare figli, si univano a uomini stranieri, che erano ammessi nella comunità come schiavi.
Se il neonato era maschio, veniva ucciso.
Le Amazzoni erano considerate crudeli e prive di qualsiasi sentimento di umanità: la loro linfa vitale era l’odio verso l’uomo, che conferiva loro la rabbia necessaria per essere invincibili in battaglia.
Recentemente, anche questo mito è stato letto come un racconto catartico, elaborato per esorcizzare il potere femminile e per impedire che la tensione tra i sessi si trasformasse in conflitto insanabile; è inoltre molto probabile che questa narrazione servisse a rappresentare un mondo selvaggio e barbaro – come quello formato da sole femmine -, contrapposto a quello armonioso della civiltà, fondato sulla coesistenza pacifica tra i sessi.
Più che un residuo dell’era matriarcale, quindi, il mito delle Amazzoni attesterebbe una situazione esattamente opposta: la volontà di una società dominata dall’uomo di dimostrare l’innaturalità della separazione tra i sessi e l’incapacità delle donne di pervenire a una gestione equilibrata e stabile della società.
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Sandro(Quota) (Replica)
La questione matriarcato originario è ovviamente complessa, e non sono certo io a poterla dirimere. Mi limito ad osservare: a) anche se è vero che l’agricoltura è nata per opera femminile, lo è anche il fatto che l’agricoltura è stata la principale attività umana per sfamarsi lungo tutto il periodo patriarcale. E ciò in ragione del fatto che l’aumento della produttività della terra tramite l’invenzione dell’aratro necessitava di una ancora notevole forza fisica, quindi maschile. b)la questione matriarcato/patriarcato, secondo me, va posta non tanto e solo in termini sociologici, ma soprattutto psichici. Per cui può ben esservi una società in cui esista prevalenza sociologica maschile, ma psichicamente matriarcale. Esempio tipico prolungato fino ai giorni nostri, è la Mafia, di cui ha scritto Silvia Di Lorenza in “La grande madre mafia”. In essa, la mafia, tutta la ritualità, il modo di essere e di relazionarsi dei soggetti, il considerare il proprio clan (o la propria “famiglia”) come il centro e il fine di ogni azione, cioè come l’elemeno o il fattore determinante il concetto di “giustizia”, sono tipicamente matriarcali. La norma “erga omnes”, quindi un concetto di giustizia fondato sull’universalità e l’oggettività, è di origine patriarcale. Si potrà, anche a ragione, obiettare che un “diritto uguale fra disuguali” è qualcosa di monco e che non si traduce mai in vera ugusaglianza concreta, tuttavia il principio è posto, ed è di grande valore.
Rimangono in ogni caso, mi sembra, alcuni punti fermi: quando nelle relazioni sociali, in primo luogo quelle coi figli, prevale il principio “naturalistico” e biologico, diventano ineluttabili la prevalenza dell’elemento femminile e la “difficoltà”/subordinazione di quello maschile. Il che corrisponde anche alle attribuzioni tradizionali dei caratteri femminili e maschili. La donna è sempre associata alla natura, alla materia, all’energia ctonia. Così nell’Ying e Yang cinesi, così nel simbolismo induista e nella Kabbala ebraica. Così per Aristotele, per il quale il maschile rappresenta la forma specifica, la femmina la materia….dove forma significa il potere che suscita un moto, un divenire, mentre, chiosa Evola, materia significa “causa strumentale di ogni sviluppo….sostanza o potenza che, in sè priva di forma, può assumere ogni forma che in sè è nulla ma una volta attivata e fecondata può divenire tutto”. Si tratta ovviamente di tratti e caratteri simbolici, presenti in ogni essere umano in mix diversi, ma associati sempre al femminile o al maschile. Tutto ciò significa anche che il maschile trascende il puro dato biologico, è piuttosto “cultura” o “spirito”,e che quando rimane in ambito puramente biologico è destinato a subordinarsi. Questo spiega anche perchè il femminile è “conservazione” e perchè tutte , proprio tutte, le grandi costruzioni culturali (religioni, specie monoteiste, sistemi filosofici, sistemi scientifici ecc) che mirano alla trasformazione del mondo, sono opera maschile. Nel bene, ma anche, perchè no, nel male. Non sono certo io a ribaltare l’assunto femminista che “femmina è bello e buono” e “maschio brutto e cattivo. Mi basta si riconoscano queste diversità fondamentali, o ontologiche, fra maschile e femminile, che hanno ovviamente conseguenze….
armando(Quota) (Replica)