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<<Il 90% degli aggressori sono italiani, il patriarcato esiste, legge o non legge e il femminicidio non ha nazionalità. Tu Valditara la pensi così, ma mi chiedo, ma proprio quel giorno lì la dovevi dire questa roba? Non hai pensato ma sta boiata non sarebbe meglio non dirla? Non hai un filtro, un tubo minchialitico, un filtro, che separa la verità dai dati falsi? Per di più lo hai detto in un video registrato… neanche in diretta e nessuno rivedendolo ti ha detto niente?>>.
Queste le parole di Luciana Littizzetto, che si aggiungono al battage che si è scatenata in questi giorni contro alcune dichiarazioni del ministro Valditara, in particolare: <<Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale>>.
Quale è il significato dell’espressione “patriarcato”, impiegata dalla Littizzetto? Il riferimento è alla “teoria del patriarcato”, di stampo femminista, secondo cui le donne sarebbero vittime di una oppressione millenaria da parte degli uomini e, nella fattispecie, vi sarebbe in Italia una sorta di cultura della violenza e della sopraffazione contro le donne, nonché una sistematica strage di donne ad opera degli uomini italiani, bianchi ed eterosessuali.
Ed in effetti, ogni volta che si verifica quel particolare evento chiamato “femminicidio”, la sfera dell’informazione italiana pone in essere una sorta di caccia all’ebreo, dove in preda a manifestazioni di isterismo di massa echeggiano invocazioni di sterminio collettivo di una parte del genere maschile (dal quale vengono opportunamente escluse ampie porzioni, e vedremo subito il perché), la richiesta dell’allestimento di centri (o campi) di rieducazione, la promulgazione di leggi draconiane e in generale l’esortazione a diffidare (forse sarebbe più corretto scrivere odiare) di qualsiasi “maschio bianco cisgender” (l’oppressore patriarcale per antonomasia).
Nel cercare di definire i contorni della questione, indichiamo il numero di donne uccise in Italia nel 2024, ovvero circa un centinaio (e in questo centinaio rientrano anche donne uccise da altre donne).
Possono essere tutti gli omicidi di donne classificati come femminicidi? Sì, no, forse: a seconda delle convenienze delle associazioni femministe che richiedono fondi e di quelle relative alle carriere politiche o giornalistiche della femminista più radicale, della lady vittoriana boldriniana o della damazza meloniana di turno.
Effettivamente, quando si tratta di colpire l’opinione pubblica spingendo sul fronte “emergenza” e “strage di donne”, i “femminicidi” coincidono con il numero totale delle vittime di omicidi. Quando invece l’obiettivo principale è lanciare strali contro il “patriarcato” (che se non ci fosse, dovrebbero inventarlo – infatti è quello che sta avvenendo – ), di inveire contro i privilegiati maschi bianchi italiani ed eterosessuali, il riferimento di questo termine (che non ha di per sé una definizione giuridica, e neanche politica o sociale, ma per lo più ideologica e mediatica) sembrerebbe diventare inintellegibile.
Affermiamo questo in ragione del fatto che, ancora prima degli isterismi che hanno caratterizzato la reazione alle affermazione del ministro Valditara, il quale, pur non contestando minimamente la vulgata femminista secondo cui in Italia vi sarebbe attualmente una strage di donne e una dominazione violenta degli uomini sulle donne, ha semplicemente fatto notare come gli stranieri di sesso maschile, pur rappresentando solamente il 4,2% della popolazione maschile, arrivino a commettere il 28% degli omicidi del partner e, nel 2022, quasi il 90% delle induzioni o costrizioni al matrimonio, il 43% delle violenze sessuali, etc.
Questo significa che, per quanto sia necessario leggere i dati con cautela (evitando di cadere dalla falsa narrazione degli uomini violenti contro le donne, a quella degli uomini stranieri violenti contro le donne), ignorare l’evidenza che l’incidenza di violenza sulle donne nella popolazione immigrata sia proporzionalmente più alta rispetto a quella italiana è miope. La costanza della proporzione negli anni suggerisce infatti un fenomeno reale e non un errore di misura. Piuttosto che ignorare questo dato, bisognerebbe riflettere su come migliorare le condizioni socioeconomiche di questa fascia demografica e ridurre il disagio all’interno della popolazione immigrata per affrontare il problema alla radice. Nascondere la testa sotto la sabbia non aiuta nessuno. Ma, come avevamo accennato prima, perché questo avviene?
Procediamo con ordine: l’omicidio di una donna da parte di un’altra donna è considerato femminicidio nei conteggi dei cartelloni a Palazzo Chigi e nei numeri sbandierati nei telegiornali o nei talk show, ma non lo è (anche qualora il movente fosse effettivamente di natura passionale, come nel caso in cui il colpevole fosse una lesbica respinta o l’amante del compagno della vittima) quando si tratta di destare l’interesse dei media, della politica e del mondo delle associazioni (che per l’appunto tendono a dare a questi fatti il minimo risalto possibile per poi farli sparire dalla cronaca e dal dibattito socio-politico). Questo significa che uno dei requisiti minimi e indispensabili affinché di una uccisione volontaria di una donna possa se ne possa parlare pubblicamente come femminicidio è la presenza di un uomo come carnefice.
Tali eccezioni già di per sé farebbero scendere il numero dei femminicidi in Italia.
A tale cifra sembra che andrebbero poi sottratti i casi in cui il carnefice è un uomo di origini straniere: ecco il motivo per cui non si è sentito parlare de casi di Carlmela Ion, Maria Campai, Eleonora Toci, Auriane Nathalie Laisné, Cristiane Angeline Soares De Souza, Li Xiumei, Maria Rus, Delia Zariniscu, Roua Nabi, Saida Hammouda, uccise da uomini albanesi (2), rumeni (2), tunisini (2), moldavi (1), egiziani (1), cinesi (1) se non episodicamente e nelle cronaca locale (oltre agli omicidi di donne perpetrati da stranieri che non hanno un movente relativo alla vita della coppia).
E, come abbiamo già rilevato, questo non solo in ragione del fatto che nessuno di questi casi ha suscitato il clamore dei media, della politica e dell’associazionismo femminista, ma anche perché, quando un ministro si è permesso di spendere due parole a riguardo, è stato massacrato da vari organi di stampa, da personaggi pubblici e politici, con ordini di scuderia che hanno spinto persino il Sole 24 Ore ad affrettarsi nel pubblicare un articolo che, pur mostrando dati che confermano le parole del ministro, ripete ad ogni piè sospinto che “la violenza sulle donne parla italiano” e che in Italia ci sarebbero profonde ragioni e radici culturali che spingono milioni di mariti, fidanzati ed ex compagni a sterminare le donne italiane (in realtà una quarantina ogni anno, non di più; quindi circa uno 0.0002% della popolazione maschile, includendo tutti gli omicidi di donne il cui autore è un uomo italiano). E in ogni caso, sull’assunto del “problema culturale”, affermare ripetutamente che esiste un “problema culturale,” senza fornire un sistema argomentativo solido e approfondito, non lo rende una verità ( all’opposto, questo approccio, oltre ad essere inefficace, rischia di banalizzare un fenomeno complesso).
In estrema sintesi possiamo dire che dei 40 omicidi che si consumano ogni anno in cui la vittima è una donna e l’assassino un uomo, solo una decina (forse meno) sono stati seguiti dalla stampa, ed esattamente quelli avvenuti nel Nord Italia, in cui il carnefice era italiano e sprovvisto di caratteristiche che lo rendessero suscettibile di essere incluso in una “categoria protetta”.
Il sistema sembra pertanto selezionare accuratamente quali vicende siano degne di “uscire dalla cronaca” (per citare un’espressione usata spesso dai commentatori televisivi) e quali no.
Le ragioni di questa ostilità verso tutto ciò che potrebbe distogliere l’attenzione dal tentativo di circoscrivere nella maniera più netta possibile le accuse collettive al “genere maschile” al tipo di uomo di cui si diceva sopra (bianco, italiano, eterosessuale, cattolico o ateo che sia) potrebbe a sua volta risiedere principalmente nell’orientamento e negli obiettivi delle varie sigle istituzionali e para-istituzionali coinvolte. Esse infatti, come espressione delle élite dominanti, sembrano essere animate dalla necessità di cercare e alimentare una rassicurazione della propria superiorità intellettuale e morale (rispetto alle masse sempre più sofferenti e a chi non si riconosce nell’ideologia dello establishment) come compensazione immaginaria della propria impotenza storica (come ceto intellettuale e politico), della propria incapacità di contrastare i fenomeni di degradazione materiale e morale indotti dal sistema capitalistico.
Tuttavia, se queste sono le dinamiche profonde della struttura sociale nelle quali si inscrivono gli attori politici (partiti, movimenti, gruppi di pressione, lobby) di cui sopra, vi è un ulteriore elemento che appare anche più oscuro e angosciante e riguarda quel che realmente vorrebbe Luciana Littizzetto (desumibile anche dal fallocentrismo del suo registro linguistico). Qual è il senso di trovarsi immersi in uno psicodramma collettivo, quando è evidente che in Italia non esiste più alcuna “cultura patriarcale”? E se il problema fosse proprio questo? Provo a spiegarmi meglio.
Osserviamo la reazione standard della maggior parte degli uomini, nella vita reale come nei social, ogni volta che un singolo e rarissimo caso di cronaca diventa il pretesto per mettere sotto accusa il “genere maschile” (sempre ridotto alle categorie di cui sopra): essa si sostanzia in scuse, atti di genuflessione, ammissione di essere in quanto uomini peggiori degli animali e richieste di punizioni collettive esemplari.
Ma è questo ciò che chiedono le donne, dalle femministe più radicali alle damazze meloniane? La sottomissione del genere maschile? Beh, se l’obiettivo è questo, mi sembra già raggiunto da tempo: nel contesto attuale le donne, a livello di costumi, sono libere di fare quel che vogliono, mettere in pratica comportamenti a rischio, lasciare, tradire, umiliare, aggredire, senza subire alcuna conseguenza; anzi, vengono incensate come donne emancipate e riescono persino ad organizzare con successo raccolte di fondi per aumentare il proprio seno o posare nude per sfidare il patriarcato (sic).
Questo sarebbe possibile in un paese patriarcale? Temo proprio di no (e forse Valditara si riferiva anche a questo, chi lo sa). Se i maschi bianchi italiani cattolici e patriarcali vengono chiamati in causa con tanta forza quando ormai sono solamente dei fantasmi, potrebbe dunque trattarsi di una invocazione?
Del resto sembrerebbe che più gli uomini italiani frignano e si genuflettono, più vengono accusati di essere assassini e stupratori in incognito o in fieri: quale sarebbe la dinamica celata dietro tale follia? È possibile che questa dissonanza cognitiva sempre più evidente sia anche espressione di un malessere profondo e innominabile, di una mancanza, da parte di una donna come la Littizzetto, di una figura in grado di offrirle un senso, anche da una prospettiva totalmente “oppositiva”, all’essere donna oggi?
Ai posteri l’ardua sentenza.
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