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05 Giu 2020  |  1 Commento

La millenaria oppressione delle donne? (elementi di una critica del femminismo, 1)

I. Introduzione
Questo scritto vuole essere l’inizio di un lavoro di discussione critica di alcuni punti della visione femminista del mondo e della storia. Credo sia giusto provare a fare questo lavoro perché il femminismo (e più in generale, il “politicamente corretto”) è ormai diventato uno dei pilastri ideologici delle moderne società occidentali, e mi sembra doveroso esaminare criticamente i fondamenti razionali di tale visione del mondo e indicarne le debolezze. È curioso il fatto che questo lavoro critico sembra negletto, almeno all’interno del mondo intellettuale “ufficiale” (in particolare nell’accademia). Esiste certamente una produzione intellettuale di critici del femminismo (che si esprime tramite libri e, soprattutto, sul web), ma si tratta di elaborazioni che restano marginali e ultraminoritarie. Sembra cioè che, mentre nel mondo intellettuale occidentale si può essere individualisti o comunitaristi, keynesiani o antikeynesiani, pro-Stato oppure pro-mercato, marxisti o antimarxisti, non si possa essere antifemministi. Questo è di per sé un tema interessante di riflessione, ma non è il tema di questo scritto. Preciso solo che, per quanto mi riguarda, “antifemminismo” non significa contestazione della tesi dell’uguaglianza fra gli esseri umani e della sostanziale unità del genere umano. Non è questo che intendo parlando di “critica del femminismo”; intendo piuttosto la critica di una interpretazione del mondo e della storia. Intendo cioè dire che nel mondo intellettuale contemporaneo vi è una notevole produzione di tesi e affermazioni di tipo femminista che riguardano la realtà degli esseri umani, presenti e passati, e che mi sembra un lavoro necessario quello di prendere in esame alcune di queste affermazioni per saggiarne la solidità, e rifiutarle se appaiono infondate. È questo il compito che mi propongo, in questo intervento e in altri che seguiranno
La tesi che discuto in questo scritto è quella secondo cui le donne sono vittime di una oppressione millenaria da parte degli uomini. In tutta o quasi la storia conosciuta le donne sarebbero state oppresse dagli uomini per il vantaggio di questi ultimi. Poniamoci allora la domanda se questa tesi sia razionalmente fondata. È davvero esistita la millenaria oppressione, il millenario sfruttamento delle donne da parte degli uomini?
Comincerò esaminando le società premoderne formatesi dal Neolitico in poi. Escludo cioè dall’analisi, per il momento, le società di cacciatori-raccoglitori come pure la società moderna. Faccio quindi riferimento a un periodo che va dalla rivoluzione neolitica all’inizio dell’età moderna, diciamo da circa 9000 o 10.000 anni fa (rivoluzione neolitica) fino a un momento che possiamo situare fra il 1500 e il 1800 d.C. (inizio dell’età moderna). Non è importante la precisione puntuale su queste date. Quello che ritengo fondamentale, nel ragionamento che propongo, è il punto seguente. Se pensiamo alla totalità delle espressioni culturali delle società umane in questo periodo di tempo, nel quale si è avvicendata la grande maggioranza delle società umane di cui ci è giunta notizia, ci si presentano alla mente i più disparati tipi umani: feroci guerrieri e austere sacerdotesse, nobili orgogliosi e avidi mercanti, abili regine e saggi consiglieri, audaci viaggiatori e appassionate poetesse, e così via, scorrendo la ricchissima galleria della storia umana. Ciò che mi preme sottolineare è che concentrarsi su questa serie infinita di tipi umani è certo affascinante, ma può presentare un effetto distorsivo rispetto alla realtà. Infatti quando si guarda ai tipi umani che abbiamo descritto si sta guardando agli strati superiori delle società. Ma tali vertici erano in realtà gruppi piuttosto ristretti, ai quali si contrapponeva la gran parte dell’umanità. E cosa faceva la gran parte dell’umanità? Lavorava nei campi, e col proprio lavoro manteneva tutta la variegata umanità che abbiamo sopra descritto. E siamo sicuri che si trattava della stragrande maggioranza dell’umanità per un motivo molto semplice: l’agricoltura non era molto produttiva, e quindi era necessario il lavoro di molti per dar agio a pochi di svincolarsi dal lavoro nei campi e poter fare appunto i guerrieri, le sacerdotesse e così via. Possiamo tranquillamente affermare che, nel periodo storico che stiamo esaminando, quello della predominanza delle società agricole tradizionali, la stragrande maggioranza dell’umanità ha vissuto la vita del contadino e della contadina nel villaggio. Se vogliamo parlare della condizione della donna in confronto a quella dell’uomo, è allora a questa realtà che dobbiamo guardare, perché è stata questa, per un lunghissimo periodo storico, la vita della stragrande maggioranza degli uomini e delle donne.
II. Contadini e contadine.
Quando si tenta di fare considerazioni di questo tipo è sempre molto forte il rischio dell’anacronismo. Si tende cioè a dimenticare che le società premoderne erano molto diverse dalle nostre, e che ogni paragone diretto è improprio. Uno degli elementi più evidenti che occorre tenere presente è il fatto che si tratta di società dove la vita era più dura, difficile e faticosa dell’attuale, e lo era per tutti. In particolare la violenza era diffusa e la vita umana, specie di coloro che si trovavano al fondo della scala sociale, non valeva molto. Ma se questo, come dicevo, è il dato più appariscente, c’è un’altra considerazione di grande importanza. Si tratta del fatto che le società premoderne sono società nelle quali non esiste l’idea di libertà del soggetto individuale così come noi la conosciamo. In tali società la vita di tutti gli esseri umani si svolge secondo i binari predeterminati dalle tradizioni, dagli usi e costumi. Contadini e signori, mercanti e guerrieri avevano ciascuno il proprio codice di comportamento stabilito dalla tradizione, ed è al suo interno che dovevano cercare un senso e una soddisfazione per la propria vita. Quando cerchiamo di comprendere la vita di questi esseri umani dobbiamo mettere da parte le nostre idee di libera espressione dell’individualità, di ricerca e costruzione del proprio posto nel mondo. Certo, non bisogna passare all’estremo opposto, cioè pensare a vite totalmente dominate da un potere costrittivo esteriore (come pure era possibile in certe condizioni, per esempio nel caso degli schiavi). Occorre piuttosto pensare a vite che potevano trovare, come si diceva sopra, un senso e anche una certa espressione di sé, ma solo all’interno dei limiti stabiliti dalle tradizioni. Tutto questo vale in particolare per la vita di contadini e contadine nel villaggio. Cerchiamo allora di vedere più da vicino questa vita. Ovviamente saremo costretti a fare discorsi un po’ astratti, perché vogliamo parlare di caratteristiche generali che possono accomunare il villaggio feudale del medioevo europeo, quelli della millenaria civiltà cinese, quelli africani, maya e così via. Quali sono le caratteristiche generali della vita di contadini e contadine nel villaggio? Il dato di partenza, direi universale, è quello della divisione del lavoro su base sessuale. Ovviamente le modalità della divisione del lavoro possono essere molto diverse nei vari casi, ma quello che sembra essere universale è il fatto che gli uomini fanno certi lavori e le donne ne fanno altri. Grosso modo le donne gravitano verso la casa e gli uomini verso i campi, ma la banda di oscillazione è stata storicamente piuttosto ampia. In queste realtà appare fondamentale il ruolo della famiglia, perché la famiglia era l’unità sociale che organizzava il lavoro produttivo e distribuiva i prodotti per il consumo individuale (naturalmente, la parola “famiglia” può indicare realtà piuttosto diverse nelle varie situazioni). La divisione del lavoro esigeva la collaborazione fra tutti i componenti della famiglia, e la collaborazione era necessaria alla sopravvivenza. Si trattava di una vita faticosa, esposta al rischio della fame, delle malattie, delle violenze dei potenti di turno. Con un po’ di fortuna si poteva comunque sperare di vivere una vita decente, secondo i parametri stabiliti dalla tradizione, di non essere vittima dei mali sopra indicati, di allevare i figli che avrebbero sostenuto la vecchiaia dei genitori e proseguito la vita della famiglia e dell’organizzazione sociale, di vivere all’interno di una rete di rapporti umani accettabili in termini di comprensione e rispetto reciproco, sempre in riferimento a quanto stabilito dalla tradizione.
All’interno di questo quadro generalissimo, è ragionevole parlare in termini di sfruttamento e oppressione della donna? Quando si parla di oppressione e sfruttamento, sarebbe necessario vedere un netto vantaggio per l’oppressore e un netto svantaggio per l’oppresso. Sarebbe necessario vedere due livelli di vita nettamente distinti: così, il padrone di schiavi faceva una vita ben diversa da quella degli schiavi, il signore feudale faceva una vita diversa dal suo servo, il “padrone del vapore” nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale faceva una vita ben diversa dalle vite di operai e operaie descritte da Engels[1]. L’oppressore ha sempre diritto, ovviamente all’interno delle condizioni generali del suo tempo e della sua società, a un livello di vita superiore a quello dell’oppresso. È evidente che appare qui una prima difficoltà per la tesi della millenaria oppressione della donna. Infatti, i contadini facevano ovviamente la stessa vita delle loro mogli: mangiavano gli stessi cibi (quando ce n’erano), si scaldavano (quando ce n’era) allo stesso fuoco, dormivano nello stesso letto. Si è mai visto il padrone della fabbrica fare la stessa vita, vivere nella stessa casa del suo operaio o della sua operaia? Si è mai visto il padrone di schiavi condividere la stessa vita dello schiavo?
Queste semplici considerazioni possono indurre a dubitare della verità della tesi sull’oppressione millenaria della donna. Cerchiamo di proseguire questo esame considerando diversi aspetti della vita di contadini e contadini; proviamo cioè a dare un rapido sguardo ai temi del lavoro, della libertà, delle relazioni affettive, del potere.
Per quanto riguarda il lavoro, è chiaro che si trattava di una vita dura per tutti. È ormai abbastanza diffusa fra gli antropologi la tesi che nelle società di caccia e raccolta il tempo di lavoro fosse una parte minoritaria del tempo di vita, e che la situazione sia cambiata, con l’aumento del carico di lavoro, appunto con la rivoluzione neolitica[2]. Se accettiamo l’idea generale che gli uomini lavorassero soprattutto nei campi e le donne soprattutto a casa (con infinite gradazioni diverse), non c’è motivo di ritenere che per uno dei due gruppi il lavoro fosse più leggero o impegnasse una parte minore del tempo di vita rispetto all’altro gruppo. Ricordiamo che nelle società premoderne non hanno molto senso né la nozione di “orario di lavoro” né quella parallela di “tempo libero”, perché non c’è una chiara distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, così come non c’è una chiara distinzione fra ambito lavorativo e ambito familiare (perché la famiglia è unità di produzione e consumo). Tutti, per sopravvivere o per vivere decentemente, erano forzati a dedicare al lavoro, ciascuno nel suo ruolo, un tempo che normalmente era una parte significativa del tempo di vita. Non si vede insomma, in questo contesto, quale fosse il privilegio maschile necessario per poter parlare di oppressione femminile.
Esaminiamo un altro punto, quello della libertà di movimento. È probabile che, mediamente, nelle società tradizionali, gli uomini avessero qualche libertà di movimento maggiore rispetto alle donne, che in certe situazioni potevano essere confinate in casa o nei paraggi. Ma questa maggiore libertà dell’uomo era comunque ristretta all’ambito limitato della vita del villaggio, e quale mai vantaggio poteva essere questo? Nessun contadino ha mai saputo cosa fossero i viaggi di piacere o il turismo. Se gli uomini si allontanavano dal villaggio, era soprattutto per le necessità di forza-lavoro dei ceti dominanti. Sicuramente i contadini egiziani che hanno contribuito alla costruzione delle piramidi, portati via dai loro villaggi nelle pause dei lavori agricoli, avranno visto una parte di mondo maggiore rispetto alle donne rimaste al villaggio, ma c’è da dubitare fortemente che lo avrebbero considerato un privilegio, tanto meno una espressione del potere maschile e dell’oppressione femminile. Anche in questo caso, quindi, non si riesce a scorgere l’oppressione femminile in termini di netta differenza di livelli di vita.
Veniamo adesso al problema delle relazioni fra i sessi nello specifico campo dell’amore, dell’erotismo, del matrimonio. Anche in questo caso occorre liberare la discussione da ogni forma di anacronismo. L’idea che il matrimonio sia il risultato di una libera scelta fra due individui autonomi che scoprono il proprio amore reciproco, e su di questo basano un progetto di vita in comune, è un’idea moderna che ha poco o nulla a che fare con ciò che era il matrimonio nelle società tradizionali. In tali società l’amore nel senso romantico e sentimentale ha poco spazio, e matrimonio e famiglia sono istituzioni sociali cui sono affidati due compiti fondamentali: un primo compito è quello di controllare la pulsione erotica, che deve essere incanalata entro le forme tradizionali per evitare i suoi effetti destabilizzanti per la società e per creare l’ambiente adatto alla riproduzione, funzione ovviamente essenziale per la permanenza nel tempo di una qualsiasi organizzazione sociale; un secondo compito è quello di rendere possibile una stabile continuità nell’attività produttiva, rispetto alla quale la famiglia è la cellula di base. Ovviamente, anche nelle nostre società il matrimonio ha a che fare con queste funzioni, ma per noi esse sono subordinate alle libere scelta di vita di due individui. Nelle società tradizionali, quelle funzioni erano gli aspetti fondamentali. Non si trattava cioè di cercare l’anima gemella, la personalità affine alla propria o magari il grande amore, ma piuttosto di scegliere il partner affidabile di una vita di lavoro e sacrifici, scelta che fra l’altro doveva avvenire all’interno di un campione piuttosto ristretto (il villaggio, al più i villaggi vicini). In queste condizioni, quale poteva essere la vita matrimoniale? Poteva naturalmente diventare un inferno per tutti i soggetti coinvolti. Nei casi migliori, poteva nascere fra gli sposi (sovente dopo dopo il matrimonio, non prima) una conoscenza reciproca che portava a una qualche forma di affetto, o almeno di tolleranza e complicità, che permetteva una vita famigliare relativamente serena, e una vecchiaia protetta grazie a figli, figlie e nipoti. Se questa era la condizione generale del matrimonio nelle società premoderne, possiamo di nuovo porci la domanda su quali fossero i vantaggi maschili e gli svantaggi femminili sulle base dei quali argomentare a favore della tesi dell’oppressione delle donne. La natura del matrimonio nella società premoderna escludeva sia per gli uomini sia per le donne l’idea, alla quale noi siamo abituati, della ricerca della “persona giusta”, e imponeva di condividere la vita con una persona che si conosceva poco e con la quale potevano esserci poche affinità. Qualsiasi cosa possiamo pensare di questo tipo di impostazione, i suoi difetti toccavano indistintamente uomini e donne. Come s’è detto, il matrimonio nelle società premoderne poteva certo diventare un inferno, ma, quando era tale, lo era per tutti i soggetti coinvolti. Certamente le singole situazioni potevano essere molto diverse, poteva esserci il marito violento o la moglie manipolatrice e denigrante, ma non vedo perché si debba pensare che uno dei due casi fosse più comune dell’altro.
Anche in questo caso si confermano, mi sembra, le caratteristiche delle società premoderne: quelle cioè di una vita difficile e dura per tutti, che non lasciava grande spazio alle aspirazioni di realizzazione individuale, per nessuno, ma che permetteva, a chi era capace di collaborazione e condivisione, una vita decente all’interno dei vincoli imposti dalla realtà data.
Esaminiamo adesso il problema dei rapporti di potere. Esisteva nel villaggio premoderno una significativa differenza di potere fra uomini e donne, e questo permetteva agli uomini di ottenere significativi miglioramenti del livello di vita rispetto alle donne? Sembra abbastanza ovvio osservare che i contadini del villaggio erano tutti, uomini e donne, ben lontani dai vertici del potere delle diverse società in cui vivevano, e quindi il potere di cui potevano disporre era talmente infinitesimale che anche la presenza di differenziali di potere fra uomini e donne poteva cambiare poco le vite rispettive. Quello che si poteva fare nel villaggio era legato all’autogestione della vita del villaggio stesso, che in effetti aveva margini non banali, una volta assicurato l’assolvimento dei vari oneri dovuti ai potenti di turno. L’assemblea del villaggio è sempre stato un ruolo di discussione e confronto reali. Ma dobbiamo ancora una volta ricordare che nelle società premoderne la vita si svolge lungo i canali della tradizione. La discussione all’assemblea del villaggio serve a organizzare la vita quotidiana e a rispondere ai problemi che sorgono di continuo, ma non a cambiare drasticamente la realtà, tantomeno a realizzare un progetto di realizzazione individuale nel senso moderno. Per capire di cosa si trattava, probabilmente l’analogia migliore nella nostra vita attuale è quella con una assemblea di condominio. C’era un differenziale di potere a favore degli uomini? Le situazioni ovviamente erano diversissime. In certe civiltà le donne partecipano alle assemblee di villaggio assieme agli uomini, in altri casi esse sono riservate agli uomini, o magari ai capifamiglia. In determinati casi storici, quindi, il potere delle assemblee di villaggio era un potere da cui le donne erano escluse. Ma questo incideva sulla vita effettiva di uomini e donne? Quali erano i vantaggi concreti che gli uomini ricavavano da questo potere, nei casi in cui era solo loro? Gli stessi che si ricavano oggi dal partecipare ad una assemblea di condominio, si potrebbe rispondere, ammettendo che l’analogia sopra suggerita sia corretta. Sembrerebbe abbastanza naturale sostenere che assemblee di villaggio erano solo un lavoro in più, una cosa che si doveva fare per difendere gli interessi della propria famiglia (e quindi anche quelli di chi eventualmente non poteva partecipare), senza che questo rappresentasse una significativa possibilità di cambiamento effettivo della vita, di realizzazione di sé al di fuori delle norme prescritte dalla tradizione. È certamente possibile che qualche uomo fosse particolarmente portato per questo tipo di gestione del villaggio, e quindi trovasse una sua soddisfazione nel partecipare alle assemblee, così come è possibile che qualche donna esclusa fosse altrettanto capace e abbia vissuto l’esclusione come una limitazione di sé. Ma è ugualmente possibile che altri uomini abbiano vissuto tale partecipazione come un inutile sovraccarico di fatica, e che altre donne fossero ben contente che a loro tale fatica fosse risparmiata. Non c’è dunque motivo di pensare che la partecipazione all’assemblea di villaggio, nei casi in cui era obbligatoria per gli uni e negata alle altre, abbia rappresentato un evidente vantaggio di vita per gli uomini. Anche per quanto riguarda il potere che veniva esercitato dall’esterno sulla comunità, talvolta con violenza, non sembra si possa affermare un significativo differenziale fra uomini e donne. Tutti erano soggetti alla violenza dei potenti. Innanzitutto l’intera comunità veniva sfruttata, in un modo o nell’altro, per mantenere i ceti superiori, il che significa che una parte del frutto del lavoro comune di uomini e donne dei ceti inferiori veniva espropriato a favore di uomini e donne dei ceti superiori. Quando le vicende storiche portavano all’insorgere di forme di violenza (invasioni, guerre, razzie di predoni, repressione violenta di rivendicazioni popolari), uomini e donne del villaggio erano tutti passibili di diventare vittime della violenza esterna: si potevano subire violenze, si poteva essere fatti schiavi, e la condizione dello schiavo poteva essere molto indegna o pericolosa (gli uomini potevano essere sottoposti a lavori particolarmente usuranti o pericolosi, le donne a sfruttamento sessuale), oppure si poteva essere semplicemente uccisi; forse era più probabile per gli uomini essere uccisi e per le donne essere stuprate, ma mi sembrerebbe difficile sostenere che questo rappresenti un significativo privilegio per gli uomini.
Possiamo allora concludere la nostra disanima della condizione maschile e femminile nelle società agricole tradizionali, in riferimento alla grande maggioranza della popolazione, formata da contadini e contadine. Nella vita di questi strati della popolazione, non ci sembra di scorgere decisivi vantaggi a favore degli uomini. Ricapitoliamo i punti centrali della nostra argomentazione: si trattava di un mondo nel quale non esisteva l’idea di realizzazione della propria personalità, di libera scelta di un proprio percorso di vita nei suoi vari aspetti, fra i quali la vita affettiva. L’idea di un diritto alla libera scelta della propria vita è appunto il portato della modernità. La vita nelle società tradizionali era prima di tutto una vita di lavoro e di sacrifici, per uomini e donne. Era una vita nella quale si poteva trovare un senso e una condizione accettabile, ma questa si costruiva non nell’indipendenza personale che è tipica della modernità, ma all’interno di una rete di relazioni e di condizionamenti reciproci che poteva dare protezione, affetto, riconoscimento, ma impediva quel tipo di libertà alla quale noi siamo abituati. Questi limiti condizionavano la vita di tutti, uomini e donne, con differenze di tipo “organizzativo” (la più importante, come abbiamo già ricordato, era la divisione del lavoro su base sessuale) ma senza evidenti dislivelli nella qualità della vita.
Se è chiaro il tipo di argomento che regge queste considerazioni, diviene evidente come esso si possa ripetere più o meno allo stesso modo per le società di cacciatori-raccoglitori che hanno preceduto la rivoluzione neolitica o che non sono entrate nel suo meccanismo. Si tratta anche in questo caso di società che presentano un’organizzazione della vita basata su comunità e tradizione, e una divisione del lavoro su base sessuale. Di nuovo, non sembra possibile evidenziare in tali società decisivi vantaggi di livello di vita a favore degli uomini [3].
III. La modernità
Quanto abbiamo argomentato finora si propone di criticare la tesi femminista di una oppressione millenaria della donna. Si intende con questo negare ogni giustificazione storica alle lotte per l’emancipazione femminile? La necessità di tale emancipazione è una illusione storica, una chimera? No, la lotta moderna per l’emancipazione femminile ha una sua ragion d’essere e una sua giustificazione storica. Ma non sono quelle della narrazione femminista. La lotta per l’emancipazione femminile nasce nella modernità perché è nella stessa modernità, non nel passato millenario delle società premoderne, che si radicano i problemi che giustificano storicamente tale lotta.
Abbiamo detto che la società premoderna non contempla il libero sviluppo della personalità. Questo è appunto lo specifico della modernità. La modernità nasce con la promessa di emancipare gli esseri umani dai vincoli delle società tradizionali e di offrire a tutti la possibilità di costruire in autonomia la propria vita. Questa promessa non viene realizzata subito, non viene realizzata per tutti. La storia della modernità è la storia delle lotte per l’emancipazione di tutti, per la realizzazione universale della promessa emancipativa. All’inizio della modernità l’autonomia personale è una conquista di pochi, e occorreranno secoli di lotte sociali perché le conquiste della modernità vengano via via estese a chi ne era escluso. Il punto cruciale, per il tema che stiamo discutendo, è allora questo: le donne all’inizio fanno parte del gruppo degli esclusi. Mentre gli uomini a poco a poco si liberano dai vincoli della società tradizionale (all’inizio solo alcuni, poi via via gruppi sempre più ampi di uomini), la vita delle donne resta legata agli schemi che gli uomini hanno cominciato a superare. La donna resta confinata nella famiglia tradizionale, che riproduce le caratteristiche delle comunità premoderne, mentre quelle stesse comunità vengono lentamente corrose dagli sviluppi moderni. Tutta la “questione femminile” sta qui: si tratta non di una oppressione millenaria, ma di un ritardo, rispetto agli uomini, nella liberazione dai vincoli delle società tradizionali. Ci si può chiedere il motivo di tale ritardo, ma non è la questione che mi preme in questo scritto. Forse una spiegazione può essere il fatto che l’emancipazione moderna inizialmente nasce nella sfera del lavoro esterno alla dimensione famigliare, cioè in quella che era la sfera d’azione tipica degli uomini, mentre la sfera femminile del lavoro famigliare inizialmente non viene toccata dai grandi cambiamenti della modernità. E questo fatto potrebbe a sua volta esser legato alla necessità di un “punto fermo” in una situazione storica di grandi cambiamenti. Forse nessuna rivoluzione può cambiare tutto nello stesso tempo, e forse la dimensione tradizionale della famiglia era necessaria nella prima fase della modernità perché permetteva una “stabilità antropologica” senza la quale la società, sotto la pressione di cambiamenti epocali, correva il rischio di dissolversi. Ma queste sono solo ipotesi, e come ho detto non sono adesso interessato a trovare una risposta a tale questione. È importante che sia chiaro il punto fondamentale sopra indicato: la necessità dell’emancipazione femminile non è il risultato di una oppressione millenaria ma nasce nella modernità, e nasce come “esclusione dall’emancipazione”. E come nella modernità nasce questa “esclusione”, così nella modernità nascono, subito o quasi subito, anche le lotte per il superamento di questa esclusione. Allo stesso modo, l’esclusione dall’emancipazione delle classi lavoratrici ha fatto sorgere, subito o quasi, la lotta per l’emancipazione dei lavoratori. E le conquiste femminili vanno di pari passo con le conquiste degli altri gruppi di esclusi, in particolare, appunto, con quelle della classe lavoratrice. La questione sarebbe allora di capire se questo processo possa dirsi concluso, se il “ritardo” nell’emancipazione delle donne sia stato colmato. È mia opinione che la risposta a questa domanda sia positiva, ma anche in questo caso non si tratta del tema di questo scritto. Cercherò di argomentare questa risposta in interventi prossimi.
Per completezza di discussione, può essere interessante porsi la domanda seguente: se le cose stanno come ho argomentato finora, perché è sorta la leggenda dell’oppressione millenaria delle donne? Si tratta a mio avviso di un errore intellettuale che aveva una funzione pratica. L’errore intellettuale consiste nell’anacronismo, o meglio, per essere più precisi, della proiezione sul passato di condizioni antropologiche contemporanee. Le donne e gli uomini che hanno lottato, nella modernità, per l’emancipazione femminile, hanno correttamente visto che le chiusura della donna nella sfera domestica rappresentava, nella modernità, una limitazione all’emancipazione stessa, una negazione di quella dimensione di libertà e autonomia che è il vessillo della modernità, e quindi un elemento di discriminazione delle donne rispetto agli uomini. Poiché questa “restrizione” della donna ad una sfera particolare si ritrova, come abbiamo detto, in tutta la storia, i teorici moderni (uomini e donne) dell’emancipazione hanno concluso che anche nelle società premoderne vi fosse una analoga discriminazione. L’errore dovrebbe essere evidente, alla luce di quanto fin qui detto: nelle società premoderne alla “restrizione” della donna in un determinato ambito fa da contraltare non la libertà moderna dell’uomo, ma una analoga “restrizione” dell’uomo, solo in un ambito diverso. Detto altrimenti: nella modernità l’uomo si emancipa dai vincoli delle società tradizionali mentre la donna resta soggetta a tali vincoli che si esprimono nella forma della famiglia tradizionale, mentre nelle società premoderne sia gli uomini sia le donne sono soggetti a tali vincoli, che hanno forme diverse dovute ai diversi ambiti di azione di uomini e donne. L’errore dei teorici dell’oppressione millenaria della donna è analogo a quello di chi legge le relazioni economico-sociali dell’antichità con le categorie dell’economia capitalistica, in sostanza proiettando le categorie che descrivono l’economia capitalistica su un passato che è essenzialmente diverso.
Questo errore intellettuale, come si è detto, ha avuto una funzione pratica nella creazione del movimento di liberazione femminile. Nella modernità i movimenti di liberazione hanno sempre bisogno di proiettare la lotta che essi conducono su uno sfondo di oppressioni millenarie. Vale per il movimento di emancipazione femminile come pure per il movimento dei lavoratori. In questo modo essi si costruiscono un’aura “messianica”, presentando la propria lotta come il riscatto di una ingiustizia smisurata perché proiettata sull’intera storia umana. È come se l’ingiustizia presente, che è quella contro la quale si lotta realmente, non fosse sufficiente a giustificare la lotta stessa. Sarebbe interessante approfondire queste dinamiche intellettuali ma, di nuovo, si tratta di un’indagine che fuoriesce dai limiti di questo scritto.
IV. Uomini e donne nel crepuscolo di civiltà
La tesi fondamentale di questo scritto è quella argomentata nelle pagine precedenti. In quest’ultima parte vorrei collegare quanto finora detto con alcune riflessioni sul prossimo futuro, che nascono dalla convinzione che l’attuale organizzazione sociale sia avviata su un percorso irreversibile di declino, che porterà a gravissime crisi. Tali crisi si svilupperanno su più piani (ecologico, economico, politico) e porteranno sofferenze e violenze, paragonabili a quelle che il mondo occidentale ha conosciuto con la crisi e la caduta dell’organizzazione economica e sociale del mondo antico (ma probabilmente molto più gravi). Ho cercato di portare argomentazioni a sostegno di questa tesi in alcuni interventi su questo blog [4], e non insisterò oltre su questo punto, che è la base di quanto segue. Questa situazione comporta, a mio avviso, un cambiamento profondo nelle dinamiche culturali del nostro tempo, rispetto ai secoli XIX e XX, che sono stati quelli delle lotte di emancipazione degli “esclusi”. Il grande tentativo del movimento intellettuale di critica progressiva della modernità è stato infatti quello di salvare le conquiste emancipative della stessa modernità (e fra esse l’emancipazione femminile) superando gli aspetti più feroci e disumani della struttura sociale capitalistica. La contraddizione qui sta nel fatto che la struttura sociale capitalistica è pur sempre quella all’interno della quale si sono dati gli sviluppi emancipativi della modernità. Questa tensione al compimento emancipativo della modernità verso una società che superi gli impulsi distruttivi del capitalismo moderno, rappresenta il tema fondamentale di molta parte della storia spirituale della modernità stessa, e in particolare il filo rosso che lega la filosofia classica tedesca a Marx. Se questa è la tradizione della “critica progressiva” del capitalismo, la situazione attuale si presenta completamente diversa, e ci indica che siamo entrati in una costellazione spirituale per certi versi opposta. Oggi dobbiamo confrontarci non col tema della transizione ad una forma più evoluta di relazioni umane, ma col tema del prossimo crollo drammatico dell’attuale società. In questo contesto, il compito non è più quello di sviluppare le conquiste della modernità ad un livello superiore di civiltà, ma piuttosto quello di salvare quanto possibile di tali conquiste attraverso il crollo di una civiltà.
Per capire come orizzontarci nelle prossime crisi, dobbiamo avere chiaro che le drammatiche prove che ci attendono colpiranno in modo diverso le persone ai diversi livelli sociali: chi ha potere e denaro sicuramente riuscirà a cavarsela meglio o almeno avrà maggiori opzioni per proteggersi, e maggiori possibilità di riuscirci. Tutti gli altri, le persone dei ceti medi e bassi, si troveranno in difficoltà molto maggiori. La principale risorsa dei ceti medi e bassi, per resistere alle tempeste in arrivo, sarà legata alla capacità di costruire o ricostruire reti di relazioni o di rapporti comunitari che supportino forme diffuse di aiuto reciproco. Le persone dei ceti subalterni dovranno cioè costruire una forma o l’altra di comunità solidale. Questa non è certo una novità storica: si tratta esattamente della situazione che abbiamo descritto nella prima parte di questo intervento. Le comunità premoderne erano appunto comunità legate da rapporti di aiuto reciproco che permettevano di sopravvivere in un ambiente che, se non era sempre completamente ostile, imponeva comunque regole precise e un duro lavoro, ai fini della sopravvivenza. La famiglia premoderna era il nucleo di base e il modello di questo tipo di comunità, che offriva protezione ma imponeva pesanti vincoli alle possibilità di autonomia.
La costruzione di reti comunitarie e solidali impone un prezzo, come lo imponevano le comunità del passato. Non sarà possibile portare in questa situazione la forma di individualismo che è tipica del nostro mondo: essa è in contrasto con la dimensione comunitaria, e ha potuto sorgere solo sulla sua rovina. Ma si può provare a salvarne alcuni aspetti fondamentali, come la libertà di pensiero o il rispetto dell’inviolabilità della persona. Per quanto riguarda la famiglia, il compito sarà probabilmente quello di ricostruirne la dimensione comunitaria all’interno della nuova situazione, salvando le conquiste fondamentali del processo emancipativo, cioè la parità in diritti e dignità di uomini e donne.
L’impressione è che il femminismo attuale non abbia coscienza della necessità di porsi su questo piano di problemi. L’azione del femminismo attuale si esplica come una attività rivendicativa a favore delle donne. Questo tipo di attività mostra due limiti fondamentali, rispetto ai problemi cui abbiamo accennato: in primo luogo essa appare del tutto interna all’orizzonte della società attuale. L’attuale femminismo rivendicativo è costruito sulla richiesta di sempre maggiori risorse a favore delle donne. Il problema è che tali risorse sono ovviamente ottenute attraverso l’organizzazione capitalistica della produzione, che, noi riteniamo, entrerà in crisi irreversibile nei prossimi decenni, provocando disastri ecologici su vasta scala e imponendo scelte tragiche[5].
In secondo luogo, il femminismo attuale sembra impostare la propria azione nei termini di una contrapposizione netta fra uomini e donne, che non sembra il quadro di riferimento più adatto alla creazione di comunità solidali. Per fare un esempio, un aspetto di questo atteggiamento femminista è quello di affermare la necessità di avere sempre più donne ai vertici del potere, e di pensare l’accesso di donne ai vertici del potere come una vittoria di tutte le donne. Se vogliamo ricostruire reti di solidarietà per i ceti subalterni, credo sia bene che le donne di tali ceti comincino a chiedersi in che cosa questo femminismo sarà loro di aiuto, nei tempi che si preparano. Per restare all’esempio appena fatto, in che modo l’accesso di qualche donna in più ai vertici del potere sarà di aiuto alle donne dei ceti subalterni? Come abbiamo già detto, è ovvio che i ceti dominanti avranno la possibilità di usare denaro e potere per sfuggire il più possibile ai disastri futuri. E cosa faranno le donne dominanti, le donne che saranno riuscite ad accedere a denaro e potere? Mi sembra che la risposta sia abbastanza ovvia. Una donna ricca e potente farà lo stesso degli uomini ricchi e potenti, cioè metterà in salvo se stessa e i propri cari (uomini e donne) grazie ai propri soldi e al proprio potere. Quando le persone come noi avranno il problema di vivere una vita decente in una situazione, per esempio, di cibo, acqua, riscaldamento razionati, le donne dei ceti medi e bassi troveranno aiuto non nelle donne dei ceti dominanti, ma nella loro cerchia di relazioni, nelle comunità solidali che saranno riuscite a costruire, e che comprenderanno molto probabilmente uomini e donne. Il modo migliore per prepararci ai tempi bui che aspettano quelli come noi, uomini e donne ai livelli medi e bassi della società, non sta certo nel combattere lotte fra uomini e donne che hanno come effetto quello di recidere i nostri legami ed eventualmente di far salire ai piani alti del potere qualche donna in più, ma sta nel costruire reti di relazioni, di collaborazione, di aiuto reciproco [6].
Concludo ricordando una parola che ha avuto una certa importanza, nella storia del XIX e del XX secolo. Si tratta di “compagno” o “compagna”, parola che, come è noto, può avere molti significati diversi: da quello politico, che indicava i membri dei partiti socialisti e comunisti, a quello relativo alla scuola o al lavoro, a quello affettivo. È anche noto che la sua etimologia rimanda al significato del condividere il pane. Il compagno o la compagna sono coloro con i quali si divide il pane. Penso che si possa concludere questo scritto con un invito rivolto a tutti, uomini e donne. L’invito è quello a porsi le domande che, io credo, diventeranno fondamentali in un futuro non troppo lontano: chi sono i miei compagni e le mie compagne? Su chi posso fare affidamento? Con chi dividerò il mio pane, chi dividerà il suo pane con me?
Credo che a partire da queste domande uomini e donne dei ceti subalterni possano provare a ripensare in maniera più serena i propri reciproci rapporti. Almeno è questo, per quel che può valere, il mio auspicio.
Note.
[1] Il riferimento è ovviamente al celebre testo di F.Engels su “La situazione della classe operaia in Inghilterra”.
[2] Si veda in particolare M.Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani 1980, e Y.N.Hariri, Da animali a Dei. Breve storia dell’umanità, Bompiani 2014. Osservazioni interessanti sulla rivoluzione neolitica anche in J.C.Scott, Le origini della civiltà, Einaudi 2018.
[3] Un’analisi simile dei rapporti tradizionali fra uomo e donna è stata svolta in W.Farrell, The myth of male power, Simon&Schuster 1993. La nostra analisi si differenzia da quella di Farrell nella valutazione della modernità, trattata nei punti seguenti.
[5] Un intervento molto serio sulla tragicità delle scelte cui l’umanità si troverà di fronte è il seguente: https://www.apocalottimismo.it/il-ritorno-della-tragedia/
[6] Un altro esempio degli aspetti problematici del femminismo contemporaneo è nel seguente intervento
Fonte articolo: http://www.badiale-tringali.it/2020/06/la-millenaria-oppressione-delle-donne.html
Distribuzione dei terreni demaniali a coppie sposate che faranno ...
Fonte foto:

1 Commento

Fabrizio Marchi 7:08 pm - 5th Giugno:

Pubblichiamo la prima parte di questa interessantissima analisi critica della narrazione storica femminista, di Marino Badiale.
Un altro autorevole intellettuale si aggiunge a coloro (in ultimo Andrea Zhok con il suo bel libro “Critica dela ragione liberale” Meltemi Editore) che hanno formulato una teorica critica del femminismo.
Un bel segnale. Il muro di gomma si sta lentamente bucando.
Ottimo.

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