Filippo Turetta è stato arrestato per l’omicidio della sua ex ragazza. Reo confesso, latitante improvvisato, nello spazio di un mattino si è consumata la sua foga criminale. In quel momento, dalla sua cattura in poi scompare, o almeno dovrebbe scomparire, il mistero. Dovrebbero esaurirsi gli appetiti cari alla letteratura d’appendice dei nostri tempi, cucita su misura per i lettori della sinistra dalle posture colte; quelle che si fanno sfogliare sotto l’ombrellone. Quel cloroformio giallistico dove smaliziati commissari, investigatrici studiate ma perennemente in lotta contro l’incomprensione altrui, esaltate da traumi indicibili dai quali ne sono uscite rafforzate, possiedono sempre un codice etico immutabile al quale appellarsi per determinare d’istinto il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. In una codificazione meccanica delle personalità, questi romanzi sono incapaci di sollevare turbamenti se non nelle descrizioni pornografiche dei delitti e si risolvono nella riproduzione protocollare dei personaggi, tutti individui autosufficienti, attrezzati per primeggiare contro i nemici del progresso, in una profusione accorata dello stereotipo.
Questo spirito letterario decadente, morboso ma cortese, dottrinale e sentenzioso, è rimaneggiato con sapienza brutale nelle trasmissioni dove la cronaca nera si fa intrattenimento. In tutte si fa a pezzi il ragionevole dubbio per scarnificare l’esistenza del processo, ma in una soprattutto lo si fa appoggiandosi alla copertura moraleggiante del giudizio incontrovertibile dei civilizzati. “Chi l’ha visto” sembra non mischiarsi, a prima vista, in quei guazzabugli pomeridiani dove il linciaggio diventa parola d’ordine del frastuono di voci organizzate nel pollaio. Lì la persecuzione del colpevole assume contorni gnomici e si fa apprezzare tramite il sorriso impassibile, smaccatamente professionale, della conduzione. Non c’è arresto che tenga, non esiste espiazione tra le sbarre, occorre che il diritto alla difesa sia schiacciato dalla gravosità della dottrina integerrima, del verdetto costumato delle intellettuali in marcia, per esempio, contro la violenza maschile.
Così al colpevole Turetta si scandagliano messaggi privati in diretta televisiva per affermare con furia assertiva, ma sempre incorrotta, che nessuno potrà mai permettersi di invocare l’infermità mentale o una qualsiasi linea difensiva, perché la morale della storia è stata già scritta dai resoconti emozionali della folla in corteo, dove “le persone anche molto celebri sono andate in forma anonima”. Questo ha scritto davvero Conchita De Gregorio, senza imbarazzarsene. Classismo sì ma pudico.
Il patibolo dovrà corrispondere alla purificazione del genere maschile. La pena esemplare non contempla attenuanti. Il processo potrà svolgersi ma solo se rappresenterà liturgicamente le ragioni della nuova campagna di rieducazione chiamata all’occorrenza sentimentale. Così l’ideologia, la falsa coscienza della benevolenza borghese, quella così orgogliosa e compunta nell’argomentare finalmente l’equivalenza tra la ricca e la povera, la sfruttatrice e la sfruttata, entrambe oppresse dal Turetta che alberga nel cuore di ognuno di noi, fa a pezzi lo stato di diritto. La gogna dacché pratica barbarica finisce per abbracciare i canoni della temperanza. Il carceriere, così come il nuovo fascismo, avranno il sorriso sadico del precettore. La grazia accanita e spietata di “Chi l’ha visto”.
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