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In Emilia a Romagna continua la campagna finanziata con i soldi pubblici per educare le donne a identificare la violenza maschile. In primis vi è da rilevare che una campagna che identifica in un uomo generico la fonte delle violenze e sprona le donne a denunciare è già di per sé deficitaria. La violenza dev’essere condannata sempre in ogni sua forma ed espressione, ma concentrarsi solo su una tipologia, e in forme dubbie, può non portare ai risultati sperati. Ogni campagna finalizzata ad elevare la qualità delle relazioni, dovrebbe essere preceduta da un serio e non breve studio per comprendere le ragioni profonde della violenza. Le iniziative estemporanee difficilmente consentono di capire in profondità il problema nella sua complessità diversificata. A tal fine gli uomini e le donne dovrebbero lavorare insieme, e lontani dai media, per avviare un attento esame del fenomeno; bisognerebbe eseguire una archeologia della violenza, in modo da scendere negli strati profondi della società tutta per descrivere la genesi delle cattive relazioni, operazione che oggi è tanto più necessaria quanto più i media, asserviti ai poteri, tendono a condizionare gesti, parole e linguaggi e a inoculare nuovi pregiudizi. Il semplicismo, estremamente pericoloso, rischia di alzare muri psicologici in cui le soggettività si ammalano; si tratta del cosiddetto “effetto inchiostro di seppia” per mezzo del quale, per impedire la vista della cruda e terribile verità-realtà, si soffia in una direzione, in modo che la parte oscuri la totalità. Anche questa è violenza! Nel caso romagnolo si resta sorpresi per i manifesti riportanti frasi del tipo:
“Non sei in grado, decido io” oppure “Sei cretina! Se te lo dice è violenza”.
Oppure la frase riportata in un manifesto e particolarmente discutibile:
“Ma quanto hai speso? Non sai neanche fare la spesa”, poiché l’abitudine ad assolvere gli obblighi della spesa quotidiana era in passato solitamente svolta dalle donne. Sono meridionale ed ho sempre vissuto in una realtà in cui le donne gestivano la casa e la amministravano con tenacia e intelligenza. I manifesti sono dunque finalizzati a sollecitare le donne a denunciare e a riconoscere le violenze. Naturalmente non si può che condividere l’azione di una donna, o meglio di qualsiasi essere umano, che denuncia una violenza subìta psicologica o fisica. Ciò che inquieta in questi manifesti è l’invito a non tener conto dei contesti linguistici. Le parole che sono riportate assumono forma e valore in base ai contesti; si può dire “sei cretina-cretino” in modo ironico e affettuoso, ma perché tale frase possa essere violenta è necessario un contesto adeguato di riferimento. In tempo di semplicismo, l’abitudine a decontestualizzare può condurre (e in effetti conduce) a interpretazioni inadeguate. I manifesti, in tal modo, non insegnano a discernere il valore della frase e ciò rischia di creare un clima di sospetto e di isterismo che può condurre ad assumere un atteggiamento preconcetto delle donne verso gli uomini, per cui le parole di un uomo possono facilmente essere fraintese; inoltre le medesime frasi denunciate nei manifesti come ordinariamente abitudinarie del genere maschile, dovrebbero essere valutate come violente anche se dette e pronunciate egualmente da una donna. La violenza è da condannare a prescindere dal genere.
Si invitano gli uomini a rivolgersi ai centri per uomini maltrattanti; il participio presente comunica al lettore e alla lettrice l’immagine di uomini che per natura maltrattano, maltrattanti come per natura. Gli uomini che instaurano relazioni di violenza ci sono, ma essi non sono tali per natura: sono parte di dinamiche che probabilmente non controllano a causa della propria storia e comunque, a prescindere dalla genealogia della violenza, sono da denunciare. Ogni essere umano ha una storia e una biografia che bisogna comprendere per agire in modo opportuno al fine di liberarlo dalla pratica della violenza, la quale è “prigione della mente”.
Vi è dunque un ulteriore pericolo costituito dalle “campagne progresso” così fatte che possono ingenerare il manicheismo di genere, in base al quale l’umanità è divisa tra uomini orchi e donne vittime. Si favorisce l’atomistica delle solitudini di genere in un tempo in cui le relazioni sono difficili, anche perché il mondo dei media lavora per dividere le coppie e non certo per consolidarle con messaggi positivi. Il manicheismo di genere rimuove le diffuse violenze sul lavoro dove uomini e donne sono oggetto di condizioni lavorative impossibili. Gli uomini si sfiancano e muoiono nel silenzio generale, o meglio le quotidiane notizie di uomini, in maggioranza, che stramazzano sul luogo di lavoro sono annunciate con frasi di circostanza e in modo cerimoniale. Per le strade non vi sono manifesti che denunciano le violenze a cui i dominati sono sottoposti dai dominatori. I “padroni” possono stare tranquilli, non ci sono centri dove ci si può rivolgere per essere difesi dalla quotidiana umiliazione-alienazione a cui si è sottoposti. I padroni maltrattanti pare che non vi sono.
Il timore del licenziamento e la solitudine del lavoratore, ormai proverbiale, inducono al silenzio che penetra le relazioni, contaminandole. L’impressione è che, sull’analisi razionale della realtà, prevalga il politicamente corretto sociale ed economico.
Nella nostra società, la violenza è diventata endemica. Se uomini e donne usano parole violente, ciò è dovuto anche ai modelli che circolano nei social e nei media, ma anche in questo caso si tace. La violenza non è realtà che compare improvvisa; essa ha la sua genesi nella totalità sociale organizzata in modo narcisistico, competitivo e fortemente selettivo. I violenti devono essere fermati, così come le donne violente, ma abbiamo il dovere di capire la causa strutturale che genera la violenza in modo da prevenire ogni sua forma palese o criptica. Siamo sommersi dai notiziari dell’orrore, che puntano sull’emozione e sul pruriginoso e che dunque non sono d’ausilio per divergere dalla violenza sociale in cui siamo gettati. Puntare sul sensazionalismo non aiuta ad uscire dalla gabbia della violenza. Solo l’impegno pubblico e dal basso degli uomini e delle donne può risultare utile per la collettività nella lotta contro la violenza. Le soluzioni parziali rischiano di conservare le condizione che generano le violenze e pertanto non sono utili. Per darci la speranza di uscire dalla tempesta in cui siamo, necessitiamo di rivedere il nostro modello di vita. Una società violenta, malgrado le campagne di denuncia, non potrà che produrre violenze e pertanto è necessario progettare un altro modo di vivere, in cui la comunità sia solidale e a misura di ogni essere umano. La speranza dunque non emerge da iniziative parziali e unidirezionali (e ideologicamente concepite e orientate), ma dal coraggio di rilevare con gli occhi della mente e del cuore le innumerevoli contraddizioni che attraversano il nostro tempo storico.
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