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30 Mar 2024  |  0 Commenti

Femminismo e capitalismo

La pedagogia rivolta alle bambine e alle giovani in formazione è un incitamento a sgomitare all’interno di un gioco competitivo che si richiede di non sottoporre a critica. Sotto l’ombrello dell’autonomia e dell’emancipazione, non si vuole affatto educare all’autodeterminazione, perché questa richiede l’attivazione dei processi che conducono a capire dove e da che parte ci si mette come persona che esercita la sua soggettività singolare. Ma proprio questa domanda e questi processi aprirebbero alla questione sociale ed è quanto si vuole accuratamente evitare. La questione di genere offre per il potere il grande vantaggio di dividere il mondo in due, e inoltre di farlo orizzontalmente.

Il modello è estremamente pervasivo e di grandissima efficacia pratica. In questo modo, molte ragazze e donne che sono sinceramente convinte di partecipare ad una battaglia di emancipazione sono le pedine di una subdola guerra orizzontale, la guerra tra i sessi. Essendo una guerra orizzontale, essa ha precisamente la funzione di lasciare inalterate, e anzi inasprire, tutte le regole del gioco; e di sguinzagliare, nel contempo, subalterni contro altri subalterni per preservare intatti e intangibili tutti gli spazi dell’attuale sistema di dominio. Il femminismo neoliberale protegge il sistema. Altre donne giocano questa partita in modo spregiudicato, cavalcano il vento prendendosi cinicamente tutti i vantaggi che si possono prendere proprio mentre ostentano pose emancipatrici. Esistono infatti donne di questa indole, proprio come esistono uomini di questa indole. Né di più, né di meno. Ma l’occidente politicamente corretto ormai preda del tecno-capitalismo e permeato dai suoi valori incoraggia questo tipo di donne. Altre ancora, infine, hanno perfettamente compreso quanto sta accadendo e la vera funzione, tutta ideologica, delle sfere discorsive delle “pari opportunità” all’interno del femminismo neoliberale, la cui grande efficacia le deriva, tra l’altro, dall’essere divenuta l’ideologia ufficiale anche delle istituzioni, propagata dall’Unione europea, dai ministeri nazionali e da questi alle scuole che, ormai a valle di tutti i processi decisionali e prive di reazione come corpi morti, per lo più recepiscono in assenza di critica come anche di dibattito interno. Del resto, come è noto il discutere non è tra le caratteristiche dei cadaveri.

Eppure l’odierna narrativa emancipatrice e progressista fa acqua da tutte le parti e le stesse fonti di provenienza dovrebbero renderla come minimo sospetta. A meno che non si voglia ancora credere che l’Unione europea, cioè una super-struttura burocratica al servizio della governance mercatista e strumento della colonialità europea nei confronti degli Stati Uniti, sia, nel quadro attuale, motrice di un progresso civile oppure, e crederlo sarebbe fede ancora più cieca e ardita, sociale.

Tuttavia, è evidente, e sotto gli occhi di tutti, che il bollo istituzionale favorisce notevolmente la coesione e il radicamento dell’ideologia. Il modus operandi è facile da comprendere. Si prende un ordine di fatti del tutto selettivo, trascurandone altri di segno opposto che sarebbero a pari titolo né più né meno importanti. Per esempio si prendono le cosiddette facoltà STEM, dove le donne sono di meno; e cioè si prende un dato come un altro all’interno di una serie statistica, dal momento che esistono evidentemente altre facoltà dove sono i maschi ad essere in numero minore. Tuttavia, si stabilisce aprioristicamente che soltanto uno di questi dati non dovrebbe essere come è (tutti gli altri vanno bene); e si asserisce, secondo un teorema per lo più deduttivo, che questa situazione è il frutto di un pregiudizio radicato che deve dunque essere modificato. Dopo aver consolidato tutti i passaggi di questo ragionamento fallace, si dirigono in quel senso finanziamenti, si convogliano risorse; di più, lo si adotta come punto di vista ufficiale del quale si fanno carico le istituzioni, si costruisce di conseguenza la comunicazione istituzionale, si irrobustiscono tutte le cinghie di trasmissione. Il gioco è fatto. Qualcuno ci crede. Qualcun altro si adatta per opportunismo o per pigrizia. In ogni caso va bene.

Non è casuale, del resto, l’alleanza tra “parità di genere” e ambito scientifico, perché si tengono insieme, nell’ecosistema valoriale neoliberale e tecnocratico, femminismo, capitalismo e retorica dell’innovazione. Quest’ultima, ovviamente, nella neolingua diventa parte integrante di un postulato scientista parzialmente implicito ma centrale nell’impalcatura ideologica, secondo il quale il potenziamento illimitato della tecnologia tende ad essere di per sé fonte di innovazione. Di fatto qualunque approccio critico, solo teoricamente incoraggiato, è messo al bando. L’innovazione è un treno salvifico dietro al quale bisogna correre, non c’è niente da discutere. Quindi, ci sono troppe poche donne nel settore e punto, le donne devono essere di più, ma non c’è nulla che non va nel modo di intendere la scienza, né la Tecnica, né il suo illimitato potenziamento, che costituisce il sacro assioma del neoliberalismo sfociato nell’ultimo quindicennio in un nuovo potere di natura tecnocratica. Ne consegue che le regole del gioco sono perfette, anzi è chiaro che non devono essere toccate, non devono essere spostate di un solo millimetro. Il punto è che sempre più donne debbano parteciparvi, perché sono ancora troppo poche. È qui che si tocca con mano come le “pari opportunità” e tutto quanto ruota attorno ad esse costituiscano un apparato ideologico a protezione del sistema e anzi a disposizione della sua recrudescenza. Che siano centrali le facoltà scientifiche non è nulla di casuale. A nessuno verrebbe mai in mente di eccepire sugli iscritti e le iscritte a facoltà di Lettere, di fare le pulci ai numeri di filologia ecc. in base al sesso degli iscritti. Sono, invece, le facoltà di ambito scientifico a legarsi strettamente al mito scientista e all’idolatria della Tecnica al centro del nuovo potere tecnocratico;  e dunque ad essere investite di tutta la retorica emancipatrice delle pari opportunità e del femminismo neoliberale, che sono gli arnesi ideologici al servizio del potere tecnocratico e della definizione del suo orizzonte antropologico.

Le cosiddette “pari opportunità” sono dunque utilizzate per blindare il gioco e le sue regole. Il problema è soltanto che le donne debbano parteciparvi in numero maggiore. Il messaggio è che quelle regole non rappresentano affatto un problema. Sono, anzi, le regole dell’unico gioco possibile.  Quelle regole sono, invece, sempre più alienanti e disumanizzanti.

Ovviamente anche un’ampia fetta dell’editoria incoraggia la stessa idea, cioè che le donne debbano farsi strada al pari degli uomini in un mondo disegnato dal mercato e dalle sue logiche competitive. In questo modo si usa la pedagogia rivolta alle ragazze per confermare e anzi per iperbolizzare l’ordine mercantile; per far emergere il messaggio che debbano armarsi di determinazione per affermarsi in un mondo che non le accetta ancora come dovrebbe ma, e proprio questo è l’essenziale, in un mondo che per il resto va benissimo cosi com’è. E nel quale rimane da fare soltanto la battaglia progressiva per l’affermazione delle donne. Su questa base nasce la “questione di genere”, tracciando una linea di divisione tanto netta quanto artificiale utile all’annichilimento della questione sociale.

L’essenziale è che le lotte non devono essere fatte contro i dominatori, cioè verticalmente dal basso verso l’alto, ma devono essere riorientate orizzontalmente, cioè da subalterni verso altri subalterni. Il sistema di valori dominato dall’etica del denaro, dal commercio di ogni aspetto dell’umano, tutto questo va bene, anzi benissimo, si tratta soltanto di renderlo paritetico tra i due sessi.

Non deve allora apparire strano se proprio l’epoca delle STEM e delle stemmine, delle “pari opportunità” e della “questione di genere” appiccicata come contrassegno in copertina sui manuali, divenuta marchio doc che certifica l’assolvimento del requisito di servilismo all’ideologia dominante per un pugno di copie in più, è anche l’epoca in cui la scuola non più pubblica viene forse definitivamente prostrata al mercato, viene resa ancella del mercato; perché non sono affatto cose scollegate, sono anzi in stretta relazione.

Così, laddove l’insegnamento dovrebbe aiutare il discente a conoscersi, a capire dove si mette, quale parte prende e quali valori sceglie, si profonde ogni sforzo perché non ci si conosca più, perché ci si identifichi come genere, naturalmente in senso interclassista all’ennesima potenza; e dunque impegnati in una lotta basata su una linea di divisione per lo più artificiale. Molti educatori partecipano attivamente nel trasferire questo messaggio. E non poche educatrici, in maggioranza nella scuola (per carità, nulla in contrario..), lo fanno per una non analizzata esigenza di auto-rappresentazione che poggia sulla stessa confusa nebbia ideologica.

È questa la via giusta per incentivare l’auto-determinazione della soggettività, coniugata con la  responsabilità che sempre comporta? Credo di no. Perché il messaggio di questa pedagogia, della cui trasmissione sono proprio le istituzioni a incaricarsi, è proprio questo: le regole del gioco non necessitano affatto di essere cambiate, vanno bene come sono, occorre solo garantire le “pari opportunità” cioè le stesse possibilità per le donne di partecipare allo stesso gioco competitivo e di mercato sempre più disumanizzante. Ma se le regole non hanno bisogno di essere cambiate e il mercato decide tutto, perché poi lamentarsi se, tra l’altro, la scuola pubblica frana paurosamente trainata dalle logiche del mercato?


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