- Views 0
- Likes 0
La tragica vicenda di Giulia Cecchettin, ammazzata da un bruto che pretendeva di amarla, ha suscitato un sovrappiù di clamore mediatico rispetto a drammi similari, dovuto solamente in parte – ritengo – alla mancanza per giorni di notizie certe, alla copertura giornalistica in presa diretta e alla vana speranza che tutto si risolvesse per il meglio. C’entrano la giovane età dei protagonisti, ma più ancora la figura della vittima, un’ottima studentessa incapace di tagliare i ponti con il suo morboso partner e futuro carnefice, e la sovraesposizione dei familiari di lei, che hanno sofferto ed esternato molto. La sorella, in particolare, ha chiamato in causa il “patriarcato”, addebitando nella sostanza l’evento luttuoso al maschilismo imperante nella nostra società.
Non me la sento di giudicare chi ha appena perduto un proprio caro – e nessuno dovrebbe farlo – ma veritas se ipsa defendet e desta sospetti l’entusiasmo con cui i media hanno rilanciato e avvalorato la “sentenza” e messo alla gogna il colpevole, cioè l’intero sesso (oggi va di moda dire genere) maschile. È il caso di chiedersi, a mente fredda, se l’interpretazione proposta o, per meglio dire, imposta sia suffragata da prove e validi argomenti che prescindano dall’emozione di una giovane scossa nell’intimo e dall’impostazione ideologica del giornalismo nostrano.
La questione che dobbiamo risolvere, semplice ma nel contempo intricata, è se quella italiana di inizio XXI secolo sia ancora una società patriarcale in cui l’uomo, vale a dire il maschio (dominante adulto), esercita il proprio predominio non soltanto sulla sposa/compagna di vita, ma sull’intera famiglia. Il termine è di matrice greca, anche se gli antichi non lo adoperavano, e risulta da una combinazione delle parole πατήρ (=padre) e αρχία (=governo): secondo l’Enciclopedia Treccani designa un “Tipo di organizzazione familiare a discendenza patriarcale, in cui cioè i figli entrano a far parte del gruppo cui appartiene il padre, dal quale prendono il nome, i diritti, la potestà che essi trasmettono al discendente più diretto e vicino nella linea maschile”.
Sappiamo dell’esistenza in passato, anche in Europa, di società matriarcali: nei miti ellenici si parla sovente delle amazzoni, donne guerriere “dominatrici” che sono forse la trasfigurazione poetica di realtà sociali preesistenti all’immigrazione dall’Asia di genti indoeuropee; d’altra parte i numerosi ritrovamenti di statuette raffiguranti dee madri preistoriche attestano la preminenza, fino a una certa epoca, dell’elemento femminile, o perlomeno una durevole parità di status fra uomini e donne. Intorno al II millennio a.C. le cose cambiano però radicalmente, e l’inversione dei ruoli è simboleggiata dalla profanazione del cadavere della regina Pentesilea a opera di Achille, che l’ha vinta in duello. Nella Grecia classica la donna versa in una condizione di minorità (più nella democratica Atene che a Sparta, a dire il vero): prigioniera del gineceo non è ammessa a partecipare alla vita pubblica, e se si azzarda a “interferire” (è il caso di Aspasia, la dotta amante di Pericle) viene schernita e considerata una poco di buono. Le uniche parti assegnatele sono quelle di madre e collaboratrice domestica: nella Lisistrata dell’iperconservatore Aristofane a scatenare l’ilarità degli spettatori è una poco verosimile inversione dei ruoli, e Socrate congeda frettolosamente e con un certo fastidio l’inconsolabile moglie Santippe.
È nella Roma repubblicana che tuttavia si afferma una forma compiuta di “patriarcato” con l’evoluzione dell’istituto della patria potestas, che assegna al capofamiglia un potere pressoché indiscusso sugli altri membri della società primaria, di cui faranno a lungo parte anche gli schiavi. Qualsiasi disobbedienza al pater è sanzionabile (persino con la morte), poiché costituisce una rottura sacrilega di quello che viene percepito come l’ordine naturale, e per la stessa ragione il parricidio espone all’atroce supplizio della poena cullei: nell’ambito familiare l’unico soggetto sui iuris è l’equivalente di un monarca, ma ai diritti quasi illimitati di cui è titolare corrisponde una responsabilità (interna ma pure esterna, cioè nei confronti delle divinità, dello Stato e dei pari) non meno ampia e assai gravosa. Ubi commoda ibi incommoda: nessuna cultura guerriera conferisce gratuitamente diritti a singoli individui. Abbiamo insomma a che fare non con un semplice “maschio alfa” che signoreggia il branco grazie a brutalità e forza fisica, ma con un garante degli equilibri esistenti, chiamato a rispondere dinanzi alla comunità della condotta dell’intero gruppo familiare. Non sembra plausibile che questa figura quasi sacrale sorga all’improvviso armata, novella Minerva, dal cervello di Giove: è più ragionevole pensare che essa abbia acquisito progressivamente, con l’avvicendarsi delle generazioni, potestà e prerogative – una traccia di questo graduale consolidamento potrebbe forse essere rinvenuta in un racconto tradizionale risalente all’epoca dei sette re e riportato da storici di età augustea. Anziché far scontrare le loro truppe in campo aperto, i sovrani di Roma e Alba Longa concordano che una disfida fra due terzetti contrapposti deciderà l’esito di una controversia territoriale. Gli albani schierano i fratelli Curiazi, cui si opporranno in armi altrettanti Orazi. L’inizio è sfavorevole ai quiriti: due loro campioni soccombono subito, il terzo si dà alla fuga – o così pare. L’Orazio superstite, in realtà, ha elaborato l’unica strategia possibile: affrontare gli inseguitori uno alla volta, visto che due di loro sono feriti e non possono reggere il suo passo veloce. In tal modo riesce ad avere la meglio sul trio e a uscire vincitore dalla pugna; sua sorella, tuttavia, innamorata di uno dei nemici, prorompe in urla e lamenti e il romano, non ancora sazio di sangue, rivolge la spada contro di lei e la uccide. Orazio ha commesso un grave crimine e andrebbe condannato, ma il popolo riconoscente interviene in suo favore ed egli se la cava sottoponendosi a un rito di purificazione. Ammesso che lo spietato combattente fosse anche pater familias (Tito Livio resta sul vago), l’episodio potrebbe effettivamente attestare la stabilizzazione di un ruolo sociale prima non indiscusso – che la violenza verso le donne sia connaturata all’esercizio della potestas è però un’illazione priva di riscontri. Nelle pieghe della storia romana ci imbattiamo più di frequente in punizioni comminate a membri maschi della familia che in “ritorsioni” contro figlie e compagne disobbedienti, e il patriarca per antonomasia è senz’altro Ottaviano Augusto, che per raggiungere i propri scopi si serve degli appartenenti alla gens Iulia muovendoli come pedine su una scacchiera. Certo, abbiamo imperatori uxoricidi (Claudio) e matricidi (Nerone), ma il maschilismo non c’entra affatto: Messalina complotta contro il sovrano suo marito, Agrippina – dopo essersi sbarazzata con il veleno di Claudio – innalza il figlio per regnare tramite lui, e quando capisce di non poter raggiungere i suoi obiettivi prende a tramare alle sue spalle.
Quella romana è in ogni caso una società patriarcale, in cui soltanto donne eccezionali (Livia in primis) riescono con fatica, e manovrando da dietro le quinte, a lasciare il segno. Altrove le cose non sembrano andare diversamente: nella civiltà mesopotamica e in quella egizia divinità femminili quali Ishtar e Iside assumono primaria importanza, e all’ombra delle piramidi Hatshepsut diventa faraone, ma tutti gli altri monarchi, nonché ministri, sacerdoti e generali appartengono invariabilmente al cosiddetto sesso forte. Presso gli ebrei Jahvè ha connotati spiccatamente maschili, e nella Bibbia le donne sono personaggi di contorno, capaci al più di occasionali imprese eroiche (Giuditta che uccide Oloferne); Gesù Cristo, nel Vangelo, tributa rispetto ad amiche e seguaci, che tratta con familiarità, ma Paolo di Tarso – che del cristianesimo è il secondo fondatore – esige che “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto” (Efesini, 5,22-24).Potremmo aggiungere che Paolo giustifica anche le disparità sociali (e l’esistenza della schiavitù), ed in effetti la Chiesa oblia ben presto l’egualitarismo delle origini, finendo per ostentare nei confronti del mondo femminile atteggiamenti di sospetto se non di aperta ostilità (la caccia alle streghe è sintomatica di questa avversione verso esseri che, per la supposta intrinseca debolezza della loro natura, sarebbero facilmente manipolabili dal Maligno, inclini alla lussuria e, per alcuni religiosi, sprovvisti addirittura di anima!).
La duplice eredità giudaico-cristiana e greco-romana, in sostanza, plasma un modello sociale non tanto patriarcale in senso stretto quanto (piuttosto) maschilista e misogino che per svariati secoli appare inscalfibile – è vero che ad andare in guerra sono gli uomini, ma le violenze che si accompagnano ai conflitti (saccheggi, stupri, uccisioni di civili) non risparmiano certo madri, spose e figlie, e a ogni modo il riparto dei ruoli non è stato contrattato o condiviso, ma fissato unilateralmente – non dai maschi tout court, peraltro, ma da quelli provvisti di potere. Quanti occupano una posizione subalterna (la stragrande maggioranza: servi, contadini, lavoratori manuali) possono “consolarsi” con la potestà maritale e sfogare le proprie frustrazioni tra le mura domestiche. Meno miserevole e tribolata, ma per certi versi ancor più umiliante è la condizione delle femmine di ceto elevato, oppresse da obblighi e convenzioni sociali che le rendono di fatto semilibere: si pensi alla manzoniana Gertrude rinchiusa dal padre in un monastero, e a certe eroine letterarie dell’Ottocento. Tra la signora borghese e l’operaio della filanda è comunque il secondo a passarsela peggio…
È proprio nel diciannovesimo secolo che le donne iniziano a prendere coscienza dei propri diritti negati e a reclamarli, scontrandosi con reazioni sempre meno ostinate man mano che la società si secolarizza: la prima grande conquista è il voto cui fa seguito, in Italia, la riforma del diritto di famiglia (1975). In tutto il mondo sviluppato – che comprende l’Occidente, ma anche grandi Paesi “non democratici” come la Russia e la Cina – la femmina è tendenzialmente equiparata al maschio della medesima classe sociale in termini di status e opportunità: residuano anche da noi sacche di sottocultura maschilista, ma si tratta di retaggi di un passato cui nessuna persona sana di mente guarda con nostalgia. In culture “tradizionali” appena sfiorate dalla modernità la situazione è indubitabilmente diversa (e deteriore), ma noi siamo partiti dall’Italia – e in Italia è opportuno restare. Citare come prove a sostegno del perdurare del “patriarcato” il superamento in tempi relativamente recenti della potestà maritale e la successiva abolizione del delitto d’onore (1981) equivale in sostanza a distorcere il senso di trasformazioni che, al contrario, costituiscono progressi epocali sulla strada della c.d. parità di genere. Il fatto che in questo nuovo clima si sia avvertito il bisogno di introdurre il concetto di “femminicidio” può dunque essere inquadrato in una luce positiva, come segnale di un’accresciuta sensibilità per le sofferenze umane e l’ingiustizia, ma non si può sottacere il sospetto di un uso talvolta strumentale (cioè di un abuso) del termine per intenti tutt’altro che nobili, come quello di erigere un muro di diffidenza tra i sessi e, in concreto, fra le persone. Ricordiamoci che il potere fomenta le divisioni tra i sudditi per trarne profitto e mantenersi saldo.
Che poi l’omicidio della povera Giulia e analoghi crimini perpetrati da maschi siano da ascriversi al (fantasma del) patriarcato è una supposizione gratuita e contraddetta dai fatti: se la “sanzione” omicida inflitta alla sventurata Saman Abbas, maturata in un ambiente retrivo, può essere reputata un delitto c.d. d’onore, nella generalità dei casi il movente è diverso, e può essere di volta in volta riconosciuto nella rabbia cieca, in un’aggressività patologica o nell’insofferenza verso ogni forma di rifiuto tipica di chi, allevato nella società dei consumi, mercifica tutto ciò che è stato spinto a desiderare e mette sullo stesso piano lo smartphone di ultima generazione e una relazione amorosa (non menziono lo stress, instrumentum regni dei regimi massmediatici occidentali, solamente perché esso è responsabile di esplosioni di furia contro esseri viventi di ogni genere e specie, oltre che di autolesionismi e patologie).
Con queste terribili vicende il pater e la sua rigida morale non c’entrano proprio niente.
Commenti recenti