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Buon anno! L’ISTAT, come sua consuetudine trimestrale, ha appena pubblicato il “Rapporto sulla coesione sociale”, qualunque cosa questa combinazione di parole significhi nei tempi che viviamo. Il rapporto dipinge, con una valanga di numeri, diverse dimensioni della vita sociale, con un’attenzione “speciale” alla questione di genere (“genere” significa “sesso” per i non avvezzi al linguaggio politically correct).
Vale la pena fare una sosta su il giornale “La Stampa” per ricavare una lettura, quantomeno originale, di tale rapporto.
A beneficio dei minori, premettiamo che nell’articolo la parola “uomo/uomini” appare solo 3 volte, e la parola “maschile” non compare mai (d’altronde non stiamo parlando di violenza domestica). E’ una premessa necessaria, soprattutto per i ragazzi non più abituati a vedere uomini adulti né nelle scuole, né nelle case, e che potrebbero essere turbati da letture androcentriche. Quindi, bollino verde!
Invito tutti a leggere prima l’articolo di cui sopra, e farvi un’idea della situazione della società e poi proseguire nella lettura di questo nostro articolo.
Dunque avete visitato la pagina de “La Stampa”? Bravi, ora procediamo alla sua disamina di citazione in citazione.
Nota: I dati utilizzati in questo articolo sono tratti dal rapporto integrale pubblicato da ISTAT il 30/12/2013, lo stesso a cui l’articolo de “La Stampa” fa riferimento.
“Demografia”
“Più di un bambino su quattro (28,3%) è nato fuori del matrimonio, quasi il triplo rispetto al 2000 (10,2%).”
C’è da cadere dalle “nubi” direbbe qualcuno. Lungi da noi il sospettare che il tema del divorzio e dell’abbattimento della figura paterna possa avere giocato un ruolo. Negli USA, dove la criminalizzazione dei padri ha 20-30 anni di vantaggio, le donne-madri hanno raggiunto il 53% e la percentuale di giovani uomini che hanno intenzione di sposarsi è un terzo di quella delle coetanee; lo diciamo a beneficio dei “giornalisti” cosicché non cadano da nubi a più alta quota, tra vent’anni.
“Continua ad aumentare l’aspettativa di vita della popolazione italiana, che nel 2011 si attesta a 79,4 anni per gli uomini e a 84,5 per le donne (stessi valori registrati per il 2010), con un guadagno rispettivamente di circa nove e sette anni in confronto a trent’anni prima.”
In questo capoverso una piccola omissione, omissione non grave giacché consuetudine; a dispetto di un’aspettativa di vita di 5,1 anni superiore, le donne continuano ad essere terribilmente discriminate essendo costrette, per legge, a lavorare (e quindi versare contributi) per meno o pari anni degli uomini.
“Cresce contestualmente anche l’indice di dipendenza, misurato dal rapporto percentuale fra la popolazione in età non attiva (0-14 anni e 65 e più) e quella in età attiva (15-64 anni), che passa dal 45,5% del 1995 al 53,5 del 2011. Nel 2050 si prevede che sarà pari a 84.”
Un’altra “leggerissima” disattenzione, dettagli… L’indice di dipendenza, che misura il livello quanto pesano figli e pensionati sui lavoratori è di 57,4 per le donne e di 49,5 per gli uomini. E poi dicono che gli uomini sono pesanti. Ma ancora più interessante è la proiezione al 2050 grazie all’effetto combinato di demografia e sistema pensionistico; l’indice di “pesantezza” (dipendenza) diverrà 77,8 per gli uomini e 90 (NOVANTA) per le donne. Ebbene sì in effetti la “questione di genere” era un dettaglio…scomodo.
“Il Lavoro”
“Nel 2012 gli occupati sono 22 milioni 899 mila, 69 mila in meno rispetto alla media del 2011.”
Qui il dettaglio omesso è che da fine 2011 a fine 2012 si sono persi 196,000 posti di lavoro maschili e guadagnati 48,000 posti di lavoro femminili, e che da fine 2012 a fine 2013 si sono persi 94,000 posti di lavoro femminili e ben 251,000 posti di lavoro maschili.
“Il calo più vistoso è quello registrato dal tasso di occupazione per la classe di età 15-24, che dal 2008 ha perso 5,8 punti percentuali, passando dal 24,4 al 18,6%.“
Vero, ma sarebbe opportuno precisare che da fine 2008 a fine 2013, in tale fascia d’età, il tasso di occupazione maschile scende del 7,9% mentre quello femminile scende del 4,2%. Dettagli, dettagli e ancora dettagli.
“Gli occupati a tempo determinato sono 2 milioni 375mila, il 13,8% dei lavoratori dipendenti. Si tratta in gran parte di giovani e donne.”
Questa informazione è semplicemente errata, con l’aggravante della dissimulazione, avendo accomunato donne e giovani (un po’ come si fa con donne e bambini in altri contesti). Ebbene, il numero di occupati a tempo determinato (nel settore privato) era, al 2013, 1 milione e 524mila, 50% donne e 50% uomini. E’ vero però che essendo meno le donne occupate, il fenomeno è più accentuato tra di esse. Che poi il tempo determinato riguardi particolarmente i giovani è anche ovvio, ma invece quello che dovrebbe allarmare è che in realtà c’è poca differenza tra le fasce “under 30”, “under 25” e “over 45” a dimostrazione che la flessibilità lavorativa sta diventando sistemica. Vabbè, non infieriamo.
“I disoccupati sono 2 milioni 744 mila, 636 mila in più rispetto al 2011. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 10,7%, con un incremento di 2,3 punti percentuali rispetto al 2011 (4 punti percentuali in più rispetto al 2008).”
Ciò è vero, ma incompleto. In realtà il tasso di disoccupazione dal 2011 al 2012 è sì cresciuto per uomini e donne identicamente del 2,3%, ma dal 2005 al 2012 è cresciuto 3,7% per gli uomini e del 1,9% per le donne.
“I salari”
“In media, la retribuzione degli uomini italiani è più elevata (1.432 euro) di quella corrisposta alle connazionali (1.146 euro).”
Il messaggio subliminale è che gli uomini guadagnino immeritatamente più delle donne, o che forse non portino i soldi “a casa”. Vale la pena di riportare qualche dato cocente, sempre ISTAT; la percentuale di persone che lavorano oltre 40 ore settimanali è del 22% per gli uomini contro il 9% delle donne; la percentuale di assenteismo maschile è 7% contro il 10% femminile. Evito di fare menzione del fatto che il lavoro privato paga di più di quello pubblico e che i lavori di fatica di solito portano qualche denaro aggiuntivo (una volta ciò sembrava naturale e anche morale, altri tempi).
“La Scuola”
“Negli ultimi anni si è ridotta la capacità dell’università di attrarre giovani. Il rapporto (tasso di passaggio) percentuale tra immatricolati all’università e diplomati di scuola secondaria superiore dell’anno scolastico precedente è sceso al 58,2% nell’anno accademico 2011/2012 dal 73% del 2003/2004, anno di avvio della Riforma dei cicli accademici.”
Porca miseria! Anche qui ci si è persi nei dettagli! In realtà il “tasso di passaggio” è sceso al 63,6% per le ragazze e al 52,5% per i ragazzi, un bel 11% di GENDER GAP.
“Tra l’anno scolastico 2006/2007 e quello 2011/2012 il tasso di partecipazione al sistema di istruzione e formazione passa da 93,9% a 99,3% mentre si riduce da 79,9 a 76,2 la percentuale di diplomati tra le persone di 19 anni.“
Ancora una disattenzione! In effetti, il tasso di diploma si riduce di circa 4 punti percentuali per ragazzi e per ragazze, ma il tasso di diploma femminile si attesta a circa l’81% contro il 72% maschile, un altro bel 9% di GENDER GAP. Uno dei motivi di ciò, è che i ragazzi vengono “dirottati” verso il vocational training, cioè scuole di formazione professionale dove non conseguiranno un diploma ma degli attestati, e dove ovviamente guadagneranno l’impossibilità tecnica di procedere verso l’università.
“Infine, nel 2012 hanno abbandonato gli studi 758 mila giovani tra i 18 e i 24 anni. Si tratta del 17,6% della popolazione di quella fascia di età.”
Ohps, l’ennesima imprecisione, perbacco! In effetti l’abbandono scolastico prematuro è pari al 14,5% per le ragazze ma è del 20,5% per i ragazzi.
La somma di quanto sopra, non proprio evidente dall’articolo, ci dice che non solo i ragazzi si diplomano di meno e vengono dirottati verso pratiche lavorative manuali, ma anche che molto più frequentemente abbandonano gli studi e che, anche laddove si diplomino, ben più difficilmente delle ragazze accedono all’università. Il sistema dell’istruzione è diventato un sistema di selezione GENDER SELECTIVE.
Come dire… leggendo l’articolo de “La Stampa” e quindi la versione un po’ più “completa” fornita da noi, non avete l’impressione che ci fosse qualche omissione di troppo…e qualche attenzione di troppo ad un solo sesso, pardon, genere? Sembra quasi che si voglia nascondere qualcosa…
Per finire alcuni “spaccati sociali” che non compaiono nell’articolo, ma sono presenti nel ricchissimo report di ISTAT.
Persone senza fissa dimora: 48,000 persone (41% italiani), di cui 87% uomini e 13% donne.
Pensioni: quelle di vecchiaia sono 8,5 milioni di cui 61% maschili e 39% femminili, quelle di invalidità sono 606,000 di cui 60% maschili e 40% femminili, quelle assistenziali e indennitarie sono 6,1 milioni di cui 35% maschili e 65% femminili, quelle di reversibilità sono 1,48 milioni di cui 8% maschili e 92% femminili; ricordatevi questi numeri fra 10 anni quando l’Italia avrà fatto bancarotta.
Infortuni sul lavoro; 656,000 nel 2012 di cui il 67% occorsi a popolazione maschile.
Malattie professionali negli ultimi 5 anni circa 200,000 di cui il 71% occorse a popolazione maschile.
Morti sul lavoro negli ultimi 5 anni 4471, di cui il 92% di sesso maschile
Morti suicidi al 2010 (purtroppo non si hanno dati più recenti); 3874 di cui il 79% di sesso maschile.
Parlare di “Coesione Sociale” in tempi di femminismo istituzionale, è come parlare di informazione in tempi di giornalismo partitocratico.
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