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06 Set 2024  |  0 Commenti

Autonomia ed Eteronomia del gesto atletico

I recenti Giochi Olimpici a Parigi sono stati, come sempre ogni quattro anni, sotto l’attenzione di milioni di persone e moltissimi commentatori. D’altra parte, si tratta di una manifestazione a carattere mondiale, l’unica in cui si vedono atleti di quasi tutto il mondo (206 paesi questa volta) gareggiare insieme in quasi tutte le discipline sportive. La nostra cultura molto calcio-centrica per qualche momento si è aperta anche agli altri sport spesso trascurati o misconosciuti, eppure praticati in altre nazioni massicciamente fino a creare icone da noi sconosciute. Non sono mancate polemiche e contrapposizioni stavolta l’attenzione è stata principalmente sulla partecipazione di atlete intersessuali, quasi evocata in quella sorta di manifesto dell’Occidente che gli organizzatori hanno voluto imporre al mondo nella cerimonia di aperture. Potremmo dirle certo Olimpiadi neoliberali, in quanto tutta questa ideologia è stata pompata all’interno delle gare, insieme ad una verbosa magniloquenza, molto francese, che le ha definite Olimpiadi dell’Inclusione. D’altra parte, non si deve dimenticare che i costi di queste manifestazioni sono talmente elevati che solo pochi paesi al mondo ormai possono permettersi un’organizzazione seria [1], che anche in Francia in qualche caso è venuta clamorosamente a mancare (vedasi le critiche al villaggio olimpico privo di aria condizionata o le questioni relative all’inquinamento della Senna). Tanto che le prossime Olimpiadi torneranno per la terza volta a Los Angeles (2028) e poi saranno a Brisbane (2032), quindi sempre nella parte del mondo dominata dall’Occidente anglosassone. Non basterebbero dei libri ad esaminare tutti gli aspetti del ruolo giocato dallo sport nelle sue varie discipline e nei suoi addentellati con il mondo contemporaneo, per cui qui mi limiterò a gettare qualche traccia di alcune possibili analisi [2].

Autonomia

In sé che cosa è il gesto atletico? Per quale motivo esso ci attira così tanto e qualche volta ci turba quando esso realizza qualcosa che ci sembra impossibile qualche attimo prima? La risposta va a mio avviso cercata nel fatto che il gesto atletico sottende la cessazione della rappresentazione simbolica in cui siamo immersi quotidianamente per concentrarsi sul momento intrinseco dell’azione in cui la realtà non è più mediata dal linguaggio ma viene ad essere in primo piano in quel preciso istante.

Tutti noi percepiamo il mondo non in modo immediato, ma attraverso la rappresentazione simbolica del linguaggio che apprendiamo dai nostri genitori fin da piccoli, con le differenze dovute alla lingua e alla cultura, quando osservo qualcosa essa ha un “nome” e in linea di massima ad ogni cosa può essere attribuito un predicato verbale, i.e. un’azione, che può essere anche semplicemente una copula, ossia la semplice esistenza. Questa rete di simboli ci imprigiona, ma è anche la caratteristica intrinseca della natura umana che consente cose come l’immaginazione e quindi crea la cultura e la storia. Grazie al linguaggio noi possiamo pensare al passato e al futuro. Questo ci differenzia dagli animali, che non hanno questa capacità, o se la hanno (primati e poche altre specie) la realizzano in modo molto elementare.

La cosa interessante del gesto atletico è che esso può essere codificato in modo simbolico, ma nella sua realizzazione pratica esso richiede la completa dimenticanza della rappresentazione simbolica che coinvolge il linguaggio, esso si produce come ripetizione infinita dello stesso gesto, un rito, fino al raggiungimento della (quasi) perfezione. Si realizza attraverso l’attenzione focalizzata, o concentrazione, dell’atleta che sfiora la trance, per cogliere quell’attimo in cui la realtà è esperita in modo pieno senza il filtro del linguaggio: questa attenzione o concentrazione è stata detta anche “assorbimento” [3]. Da un punto di vista dialettico potremmo affermare che lanciare, colpire, saltare sono inizialmente gesti naturali, che possono essere rappresentati nel gesto atletico in modo simbolico, un compito che ricade sugli allenatori, ma che nell’attimo della loro realizzazione essi tornano ad essere liberi dalla rete di rappresentazione simbolica diventando estrema ripetizione di un gesto (quasi) rituale, che nel campione diventa esteticamente perfetto a chi osserva. Il gesto atletico non è istintivo come la corsa di un ghepardo, perché esso è codificato, anche chi corre i cento metri piani ha necessità di imparare (sparo, uscire dai blocchi, progressione) eppure ha bisogno di quella trance in cui corpo e mente devono essere “assorbiti” totalmente per realizzare la prestazione agonistica. Negli animali non esiste il concetto di prestazione agonistica, non ha alcun senso perché essi non vivono mai in un mondo di simboli linguistici, per cui solo con difficoltà escono dalla percezione qui ed ora del reale. La natura umana ne è invece completamente immersa, la natura umana stessa è qualcosa che viene descritta mediante concetti simbolici. Mentre nel gesto atletico la rappresentazione simbolica del linguaggio è del tutto inutile e viene sospesa, mentre diventa centrale la percezione della realtà immediata al di sotto della rappresentazione simbolica.

Il raggiungimento della prestazione impeccabile non è per tutti, ma il gesto atletico ci attrae proprio per la sua perfezione quando è riuscito. È sorprendente che il cervello ha la possibilità di apprenderlo anche attraverso un altro meccanismo non simbolico che sono i c.d. Neuroni specchio. L’attivarsi di questo meccanismo fa si noi possiamo imitare il gesto atletico di altri (naturalmente ci riescono molto meglio i bambini e gli adolescenti che le persone mature), per poterlo perfezionare però abbiamo bisogno dell’allenamento, della ripetizione, e della spiegazione tecnica che ci può dare un maestro ovvero un allenatore. La prestazione eccezionale richiede all’atleta grandi sacrifici, per cui non è scorretto a mio avviso parlare di rito e ascesi [4]. Per gli sportivi di alto livello la vita diventa dominata dalla realizzazione del gesto, ai livelli attuali la differenza di pochi centesimi di secondo, persino millesimi, in certi casi può essere determinante. Campione è colui che perfeziona il gesto all’estremo, superando tutti gli altri.

Il cervello, anche per mezzo dell’attivazione dei neuroni specchio, risuona in tutti noi ed è forse uno dei motivi per cui questa “meccanica” non simbolica [5], ma che tocca la vera realtà materiale, ci intriga e ci affascina, diventa perciò esteticamente bella in modo che non riusciamo a volte nemmeno a descrivere [6]. Come è probabile che esistono molti livelli di trance agonistica da quella del campione fino a quella del dilettante occasionale che è meno profonda e meno necessaria della codifica. Fin dall’antichità l’attuarsi del gesto è considerato un modello estetico, ad esempio, condensato da Fidia nel famoso discobolo. È curioso notare che Plinio criticò la serenità del volto del discobolo che aveva solo un minimo un accenno di concentrazione, ma molti dei gesti atletici riusciti sono appunto realizzati quasi come se l’atleta fosse libero dalla tensione dello sforzo (vedi nella nota [3] Mushin). Forzare, in effetti, è atto della volontà, e quindi esso implica l’intervento di una rappresentazione simbolica estranea all’apparente semplicità del gesto atletico, spesso una creazione umana tutt’altro che semplice.

Eteronomia

La passione per la perfezione del gesto atletico comporta che un evento come le Olimpiadi estive sia seguito da milioni di persone e, venendo a cosa è al di fuori del gesto in se, quale migliore mezzo per dimostrare al mondo la propria ideologia? Le appena terminate Olimpiadi dell’Inclusione seguono fedelmente il programma neoliberale volendo dimostrare che solo l’occidente democratico può essere davvero inclusivo. L’altra faccia di questa medaglia autoimpostasi è una forma di neocolonialismo quando si fa campagna acquisti nelle nazioni meno fortunate per prendere le promesse locali e farle diventare atleti di una nazione ricca. Peraltro, questa migrazione ha colpito in queste Olimpiadi anche molti atleti russi, messi ipocritamente al bando a causa della guerra, che si sono per così dire riciclati in altre nazioni [7].

Fin dalla nascita le Olimpiadi moderne sono state terreno di confronto inizialmente tra i nazionalismi europei e successivamente delle stesse economie-mondo, basti ricordare l’enorme investimento fatto dalla Germania nazista nelle Olimpiadi del 1936 e le sfide tra blocco orientale e occidentale durante la guerra fredda. L’atleta “migliore” il campione era anche il rappresentante di una determinata idea politica e sociale per quanto egli si potesse dire non interessato a farlo. E per fare questo non si è lesinato anche nell’uso di pratiche illecite come il doping [8]. Con l’esclusione della Russia anche queste Olimpiadi hanno un significato alterato, come già fu nel 1980 a Mosca e nelle successive del 1984 a Los Angeles, quando il boicottaggio causò la prevalenza nel numero di medaglie del blocco sovietico nelle prime e di quello occidentale nelle seconde.

Nelle Olimpiadi dell’Inclusione non potevano comunque mancare le polemiche intorno al caso della pugile algerina Imane Khelif, e della meno nota atleta taiwanese Yu Ting, entrambe poi medaglia d’oro nel pugilato. L’ideologia gender, mainstream in occidente, ha naturalmente fatto suo il caso, anche se si tratta in effetti di atlete intersessuali non dei trans come inizialmente la notizia era stata diffusa. In particolare, il Comitato Olimpico Internazionale (Comité International Olympique o CIO) ha soprasseduto alla squalifica inflitta alla Khelif dall’International Boxing Association (IBA) per i suoi valori alti di testosterone, accontentandosi in questo caso del sesso anagrafico. L’IBA è stata disconosciuta dal CIO [9] e definita un’associazione d’incerta natura legale e filorussa tanto per far piacere ai molti odiatori della Russia soddisfatti per la sua esclusione dai giochi. Allo stesso modo il CIO ha invitato le federazioni nazionali a creare una nuova federazione internazionale. Poco hanno potuto le atlete sconfitte dalla Khelif che hanno fatto la “X”, indicando il cromosoma X, per contestare questa decisione. Il presidente del CONI Malagò ha avuto una posizione pilatesca di fatto lavandosi le mani dichiarandosi vicino ad Angela Carini, la prima sconfitta da Khelif, ma sostenendo la posizione del CIO.

Sorge il sospetto che però questa polemica fosse tesa alla dimostrazione assurda che atlete con alti valori testosterone (anche prescindendo dall’assetto cromosomico) potessero gareggiare tra le donne, con una velata allusione al fatto che lo potevano fare anche i trans MtF. È noto che la Federazione Internazionale Atletica Leggera (World Athletics) ha dei limiti ben precisi sul testosterone (5 nmol/l [nanomoli per litro]) per identificare con certezza le atlete che possono gareggiare tra le donne, mentre il CIO ha una regola più ampia (10 nmol/l). La posizione del CIO però non sembra prendere in considerazione alcun limite, ma solo il fatto che le due boxeur hanno sempre gareggiato come donne. D’altra parte, era probabilmente l’IBA disconosciuta che avrebbe dovuto certificare i loro livelli, quindi ragioni geo-politiche si sono intrecciate alle questioni di genere.

In un altro comunicato il CIO ha definito i test IBA illegali. Ma allora anche quelli della World Athletics sarebbero illegali? Ci si può basare solo sull’anagrafica?

Ovviamente la campagna montata dalla destra contro la Khelif è sbagliata, non è lei che dovrebbe essere attaccata ma le regole che si è dato il CIO. L’aver montato il caso contro di lei l’ha fatta diventare una vittima e non un’atleta sulla quale, in assenza di informazioni certe, esistono comunque dei dubbi sulla liceità della sua partecipazione [10].Giustamente una delle pugili che lei ha poi sconfitto, l’ungherese Anna Hamori ha detto: Secondo la mia modesta opinione, non credo sia giusto che questo concorrente possa competere nella categoria delle donne. Ma non posso preoccuparmi di questo ora. Non posso cambiarlo, è la vita. Posso prometterti una cosa… Farò del mio meglio per vincere e combatterò il più a lungo possibile! [11].

La questione infatti non è chiusa, anche secondo quelli che sono favorevoli a Imane: c’è una crescente necessità di maggiori indicazioni e standardizzazione nel modo in cui gruppi come il CIO prendono decisioni sul genere, il che contribuirebbe notevolmente a stroncare speculazioni infondate come quelle avvenute con Khelif. Eric Vilain, direttore dell’Institute for Clinical and Translational Science presso l’Università della California a Irvine, consulente del CIO afferma che, sebbene il supporto del CIO a Khelif sia fondamentale, in futuro potrebbero prevenire la tempesta di domande che Khelif ha dovuto affrontare, essendo più chiari sui criteri utilizzati per consentirle di combattere a Parigi [12]. Vedremo cosa accadrà, quel che è certo è che nella nostra piccola nazione ci si accapiglia su emerite idiozie come tanto per cambiare la solita solfa tra Vannacci e i difensori della italianità di Paola Egonu, o altra miseria umana come il contare le medaglie d’oro degli uomini e delle donne separatamente, come se queste ultime gareggiassero contro gli uomini e non contro altre donne.

[1] Le Olimpiadi di Parigi sono costate 8.8 mld di euro (trascurando i costi della sicurezza e di altre cose come la “pulitura della Senna” altrimenti si arriva anche a 12 mld), le precedenti di Tokyo, anche a causa del covid, 10 mld di euro, per quelle di Los Angeles nel 2028 sono già stati previsti 7 mld di dollari di spesa, ma sicuramente aumenteranno.

[2] Peraltro il titolo di questo articolo è stato pensato molti anni fa, riflettendo appunto sullo sport in generale, come traccia di un possibile scritto ancora da venire sul fenomeno. Nella prima parte si inserisce anche in una critica del costruttivismo volendo mostrare come la natura umana non può essere in alcun modo ridotta solo all’esistenza della rappresentazione simbolica del linguaggio.

[3] Queste considerazioni sono basate sul testo dell’orientalista J. Bronkhorst, Adsorption, ma a simili considerazioni si può arrivare anche utilizzando la teoria del flow dovuta allo psicologo Mihaly Robert Csikszentmihalyi (1970). Il termine flow, adesso spesso usato anche dai commentatori, è un equivalente di “attenzione focalizzata”: In essence, flow is characterized by the complete absorption in what one does. In parte ci si può rifare anche al concetto Zen di Mushin (senza mente o la “mente senza la mente”) che è usato in riferimento alle Arti Marziali orientali come assenza di concettualizzazione (ovvero assenza della rappresentazione simbolica nei termini detti sopra). La profondità e la durata dell’assorbimento o del flow dipendono dal tipo di azione che si compie e dai livelli di concentrazione richiesti che possono variare da un evento all’altro o farlo nel corso dello stesso evento.

[4] Pur in modo stupido si può pensare che il “ritiro” delle squadre di calcio durante l’estate in fondo abbia a che fare con il “ritiro” in un monastero, il termine è lo stesso, le differenze ci sono ovviamente, ma non sono poi così grandi. È anche interessante notare come i bravi allenatori sono spesso paragonati a dei “guru”, ossia dei maestri non solo nella pratica ma anche spirituali.

[5] È noto da tempo che nessun gesto atletico, umano o animale, quindi codificato o istintivo, fa uso di una qualche teoria matematica del moto.

[6] Il rapporto tra musica e sport è molto stretto, in alcuni sport come la ginnastica artistica o il nuoto sincronizzato è diretto. In altri spesso si paragonano le prestazioni di una squadra con quella di un’orchestra. La ripetizione di parole può avere l’effetto di un mantra, che aumenta la concentrazione (cfr. su questo anche J. Bronkhorst cit. o il concetto di flow che può essere applicato anche nell’esecuzione musicale).

[7] La finale della Lotta Libera tra l’albanese Valiev e il tagiko Rassadin era in realtà la finale tra due atleti ex-russi.

[8] I due blocchi della guerra fredda si dividono ancora i quattro record mondiali dei 100, 200, 400 e 800 metri piani femminili. Tutti record sospetti di doping e mai più raggiunti da altre atlete dagli anni 80 fino ad oggi. I primi due sono della statunitense Florence Griffith Joyner e gli altri due di Marita Koch (ex DDR) e di Ludmila Kratochvílová (ex Cecoslovacchia).

[9] Precisamente il presidente del CIO Thomas Bach ha dichiarato: Abbiamo due pugili che sono nate donne, che sono cresciute come donne, che hanno passaporti femminili e che hanno gareggiato come donne per anni. Questa è una chiara definizione di donna. Non c’è mai stato il minimo dubbio al riguardo.

[10] Il caso di Imane Khelif è molto simile a quello di Caster Semenya, mezzofondista sudafricana, di cui si conosce esplicitamente per sua ammissione che è una donna intersex. Dopo i successi purtroppo per lei sono venuti i problemi, perché il nuovo limite imposto dalla IAAF (5 nmol/l) le ha di fatto impedito di gareggiare senza prendere farmaci anti-testosterone che, anche in precedenza aveva preso, ma con esiti non positivi soprattutto a livello psicologico.

[11] Khelif being in women’s boxing not fair, says next opponent, BBC Sport, 2 agosto 2024,

[12] ‘My Dignity and My Honor Is Above Everything.’ Boxer Imane Khelif Addresses Gender Controversy After Winning Olympic Gold, Time, 10 agosto 2024


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