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04 Mar 2019  |  0 Commenti

8 marzo:”Cattivi sono i tempi in cui si deve difendere l’ovvio”

“Cattivi sono i tempi in cui si deve difendere l’ovvio” (B. Brecht)

Ed eccomi qui a commentare, mio malgrado (vorrei tanto, credetemi, dedicarmi ad altro…), la scontata, che più scontata non si può, liturgia di una sinistra che si definisce “antagonista” ma che ripete come un disco rotto gli stessi mantra che vengono ripetuti quotidianamente e sistematicamente da tutti i media, da “sinistra” a destra passando per il “centro” (una categoria politica che in realtà non esiste né è veramente mai esistita…).

L’USB (Unione Sindacale di Base) ha promosso uno sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori, questi ultimi chiamati a scioperare contro la condizione di privilegio di cui godrebbero (?!).

Infatti, come si legge in questo passaggio del documento dell’USB https://confederazione.usb.it/index.php?id=20&tx_ttnews[tt_news]=107826&cHash=1feec2341f&MP=63-552  “L’impronta pesantemente familistica…nega ancora alle donne quel diritto all’autodeterminazione che deriva dalla disponibilità di risorse economiche individuali legandole così, con doppio laccio a quel partner che spesso coincide con il soggetto maltrattante”.

Viene quindi riproposto (non è certo una novità) il teorema in base al quale le donne (concetto generico e sessista per definizione, come se le donne appartenessero tutte ad un’unica “categoria” o classe sociale…) sono sempre e comunque oppresse e discriminate e la violenza di cui alcune di loro sono vittime sarebbe il risultato di una oppressione generalizzata e sistematizzata degli uomini sulle donne (sorge spontaneo chiedersi qual è, a questo punto, l’origine e la causa della violenza agita dalle donne su altre donne, sui minori e anche sugli uomini, ma probabilmente ci risponderebbero che si tratta di donne che hanno interiorizzato la cultura maschilista e patriarcale…). E viene, ovviamente, ribadito il concetto in base al quale gli uomini, in quanto tali, sarebbero in una condizione di privilegio e di dominio, per il solo fatto di appartenere al genere “privilegiato” (dal momento che tuttora, secondo loro, il sistema capitalista sarebbe a dominio maschilista e patriarcale, il che denota, a dire poco, un ritardo nell’analisi della realtà di proporzioni macroscopiche…), cioè quello maschile. Lo stesso che crepa in esclusiva sul lavoro, che costituisce il 95% della popolazione carceraria, il 90% dei senza casa, dei ricoverati alla Caritas, la maggioranza degli infortunati sul lavoro, degli abbandoni scolastici nella scuola primaria e tanto altro ancora…Singolare, diciamo pure stupefacente, per chi si troverebbe in una condizione di privilegio e di dominio, ma tant’è…

Ma non è tutto. I lavoratori (maschi) dovrebbero scioperare per protestare contro la disparità salariale che li vedrebbe percepire un salario superiore a quello delle loro colleghe, a parità di qualifica e mansione. Invito un solo lavoratore o una solo lavoratrice, del comparto pubblico o privato, a mostrarci un contratto o una busta paga dove a parità di qualifica e mansione una donna percepirebbe un salario inferiore a quello degli uomini. Aspetto ancora che qualcuno o qualcuna si palesi in tal senso ma, ovviamente, non ho mai avuto riscontri né mai li avrò per ovvie ragioni, e cioè perché la cosa non sussiste.

Ho spiegato mille volte come si arriva, in modo falso ed ipocrita, a “determinare” (si fa per dire…) il presunto gap salariale fra uomini e donne ma sono costretto a ripetermi. Invito quindi caldamente a leggere i seguenti articoli, in particolare questo http://www.linterferenza.info/attpol/un-racconto-maschile-classe/  e, volendo, anche questi altri due http://www.linterferenza.info/attpol/islanda-laboratorio-del-femminismo-europeo/ e http://www.linterferenza.info/radio/gender-pay-gap-stanno-realmente-le-cose/

E’ quindi evidente (spero che almeno il primo articolo sia stato letto…) che siamo di fronte ad una gigantesca ipocrisia ma anche ad una altrettanto gigantesca contraddizione. Il documento dell’USB in oggetto, dopo aver ribadito la questione del presunto gap salariale, sottolinea come le donne siano occupate in misura nettamente inferiore rispetto agli uomini. Cito testualmente il documento:

“Tutto questo accade in un mercato del lavoro in cui l’occupazione femminile è al 49,5%, contro il 68,5% di quella maschile, nonostante siano più istruite degli uomini (63% le diplomate, 58,8% i diplomati).  La disoccupazione femminile è al 10,4%, contro l’8,4%, numero che potrebbe sembrare relativamente basso, se non fosse che le donne, soprattutto le giovani (15-24 anni), scivolano rapidamente dalla disoccupazione all’inattività. Questa a fine 2018 raggiungeva il 44,8% (25% per gli uomini)”.

Ora, non ci vuole un genio o un campione di logica aristotelica per capire che le due questioni si elidono a vicenda. Perché, se fosse possibile retribuire una donna in misura minore di un uomo a parità di qualifica e mansione, dal momento che viviamo in una società ultra capitalistica dove la sola stella polare è il profitto, avremmo una occupazione femminile enormemente superiore a quella maschile, anche e soprattutto nell’economia sommersa, cosiddetta in nero, e sappiamo perfettamente che così non è. Del resto, ed è ovvio, qual è l’imprenditore, anche e soprattutto il più scalcinato  che, potendo assumere una donna con un salario inferiore a quello di un uomo, a parità di qualifica e mansione, assumerebbe un uomo? Nessuno, ovviamente. Onde per cui, a meno che la logica non sia acqua fresca, delle due l’una. O è possibile retribuire una donna con un salario inferiore a quello di un uomo (e allora l’occupazione femminile sarebbe più che sensibilmente superiore a quella maschile), oppure l’occupazione femminile è inferiore (come è, in effetti, ma non per discriminazione sessuale…) a quella maschile, ma in tal caso viene automaticamente a decadere il teorema in base al quale è possibile retribuire una lavoratrice con un salario inferiore a quello di un uomo.

In realtà – come spiegato negli articoli linkati – il presunto “gap” è “ottenuto” con un procedimento a dir poco ipocrita. Lo stesso con cui si calcola il reddito medio pro capite. Quando si dice, infatti, che il reddito medio pro capite è ad esempio di 15.000 euro all’anno in un determinato paese, si sa perfettamente che c’è chi percepisce un reddito di milioni e chi non ne percepisce alcuno.

Nel caso del presunto “gap salariale” fra uomini e donne si fa la medesima ipocrita operazione. Si somma il reddito complessivo percepito dagli uomini e quello percepito dalle donne e si scopre che il primo è superiore al secondo, chi dice del 12%, chi del 7%, chi dell’1%, chi addirittura del 29% o del 38%, come sostengono quelli/e dell’USB, nel caso delle lavoratrici più istruite e qualificate, per poi raccontare che le lavoratrici, a parità di mansione e qualifica, percepirebbero un salario inferiore a quello dei loro colleghi.

Ma le ragioni di questo gap non hanno nulla a che vedere con la discriminazione sessuale. A questo punto mi trovo nuovamente costretto ad invitarvi a leggere il mio primo articolo già linkato http://www.linterferenza.info/attpol/un-racconto-maschile-classe/  di cui riporto un ampio stralcio:

“Le donne optano molto di più, rispetto agli uomini, per il lavoro part time, e svolgono molte meno ore di lavoro straordinario. Questo perché ancora molte preferiscono (comprensibilmente) dedicarsi alla famiglia e alla cura e alla crescita dei figli, e lasciano che sia il proprio marito o compagno a lavorare a tempo pieno. Nonostante i tempi siano radicalmente cambiati ci sono ancora molte donne (più numerose di quanto si crede…) che optano addirittura per non lavorare – potendolo fare – e lasciare questa “incombenza” ai mariti;

Per ragioni oggettive ma anche sociali e culturali, gli uomini, in misura molto maggiore rispetto alle donne – anche in questo caso sia per ragioni oggettive (ad esempio fisiche), che socio-culturali (l’obbligo morale di lavorare e di essere socialmente accettati, anche e soprattutto dalle donne…) accettano qualsiasi tipo di orario, turnazione, mole e condizione di lavoro, ecc. E’ ovvio quindi che un lavoro gravoso, rischioso, svolto magari di notte e che contempla un maggior numero di ore di straordinari, sarà complessivamente più retribuito rispetto a quello di una segretaria, di un insegnante o di un impiegata;

Il tasso di occupazione maschile è tuttora superiore a quello femminile perché l’ingresso massiccio e sistematico delle donne nel mondo del lavoro è iniziato solo relativamente di recente, in seguito alla rivoluzione tecnica e tecnologica, che ha in larga parte (ma non del tutto, tant’è, come ho già spiegato, che a morire sul lavoro continuano ad essere solo gli uomini che continuano a svolgere i mestieri più pesanti, rischiosi, inquinanti e mortali) consentito a tutti/e, uomini e donne, di poter svolgere le medesime mansioni. Prima di tale rivoluzione, e cioè per millenni, la grandissima parte del lavoro era svolto e poteva essere svolto – per ragioni fisiche, biologiche e ambientali OGGETTIVE e non certo per discriminazione (magari essere “discriminati”, se ciò significa evitare la lenta agonia in una miniera, in una fonderia o imbarcati a forza su un vascello per morire di frustate, denutrizione o scorbuto…) – soltanto dagli uomini.

Ed è normale che ogni processo, anche il più rapido, necessita dei suoi tempi. E quindi è ovvio che tuttora il tasso di occupazione femminile sia minore rispetto a quello maschile. Ed è quindi altrettanto ovvio che questo minor tasso di occupazione incida sul calcolo (ipocrita) del salario e della ricchezza complessiva percepita dalle donne.

Naturalmente ora bisognerebbe aprire un lungo e complesso discorso di natura storica, sociale, culturale e psicologica. Mi limito solo ad alcuni cenni.

Le donne hanno rivendicato il loro diritto all’indipendenza (e quindi al lavoro) da una settantina di anni a questa parte, da quando cioè il lavoro, in virtù della rivoluzione tecnologica-industriale di cui sopra, ha reso possibile il loro massiccio e sistematico inserimento nel mondo del lavoro. Prima di tale rivoluzione le donne che lavoravano, come operaie tessili, mondine, braccianti, addette alle pulizie ecc. non lo facevano per una libera scelta di autodeterminazione nè tanto meno di “realizzazione personale” (aspirazione, lusso o vezzo di cui la stragrande maggioranza degli uomini non ha mai goduto…) ma – esattamente come quasi tutti gli uomini con l’esclusione di una esigua minoranza di appartenenti alle elite sociali dominanti, delle quali facevano parte anche alcune donne – per una dolorosa necessità, quella cioè di sopravvivere. Una necessità alla quale, se avessero potuto, avrebbe volentieri rinunciato, e ne avrebbero avuto ben donde. Nessuna donna, infatti, ha mai rivendicato il diritto di lavorare in una miniera, in un cantiere edile, in una acciaieria, su un peschereccio, a riparare fogne o su un traliccio dell’alta tensione (e infatti le quote rosa vengono richieste solo per i consigli di amministrazione e per i parlamenti…). Questa rivendicazione di indipendenza economica (attraverso il lavoro) è stata avanzata dalle donne, come ripeto, quando le condizioni oggettive lo hanno reso possibile e anche desiderabile. A tutt’oggi, e soprattutto oggi, le donne costituiscono infatti la maggioranza e talvolta la grande maggioranza della forza lavoro in settori quali la pubblica amministrazione, la scuola, la comunicazione, la magistratura, il terziario più o meno avanzato, privato o pubblico, e naturalmente i lavori di cura alla persona (dove comunque non si rischia di morire o di perdere una mano…). Mentre gli uomini, nonostante la rivoluzione tecnologica, costituiscono tuttora la grande maggioranza della forza lavoro nell’industria pesante, edile, siderurgica, estrattiva, marittima, della sicurezza e via discorrendo, dove invece non solo si rischia ma molto spesso si muore per davvero…

A ciò si deve aggiungere un altro fondamentale elemento, sempre di natura culturale/psicologica. E cioè che per le donne, al contrario degli uomini, il lavoro non ha mai rappresentato un obbligo sociale e/o morale. Erano infatti gli uomini che incappavano e tuttora incappano nella scomunica e nella riprovazione sociale qualora non fossero stati e non siano in grado di mantenersi con le proprie forze e soprattutto non fossero stati e non siano in grado di mantenere la propria famiglia.  Un obbligo che le donne non hanno mai avuto. Non è un caso che a tutt’oggi, a togliersi la vita per ragioni legate alla perdita del posto di lavoro o al non riuscire a trovarlo, sono quasi esclusivamente uomini in ragione del 98 o del 99%. Per una donna perdere il lavoro o non trovarlo, non comporta nessuna conseguenza dal punto di vista della sua considerazione sociale né tanto meno per la sua condizione psicologica (comunque non nelle forme drammatiche che assume in un uomo). Viceversa, un uomo senza lavoro è considerato un fallito, un “invisibile”, un buono a nulla. Vero o falso che sia (il più delle volte, falso) come tale si percepisce, a differenza di una donna che potrebbe anche percepirsi tale ma di certo non è gravata dalla pressione sociale e dal pubblico giudizio da cui è gravato un uomo con il suo stesso problema. Una donna senza lavoro è desiderabile e appetibile né più e né meno di una donna che lavora, perché sono di altra natura le “specificità” che la rendono desiderabile. Un uomo senza lavoro, cioè privo di reddito, semplicemente non è desiderabile (o forse solo per lo svago…) e sicuramente non appetibile (tanto meno come marito-padre)”.

 

Ma queste sono considerazioni che passano del tutto inosservate ai militanti e alle militanti dell’USB e in generale della sinistra “antagonista”. Ho provato a spiegarglielo in tanti altri articoli fra cui questo: http://www.linterferenza.info/editoriali/linsostenibile-paradosso-della-sinistra-antagonista/ ma, come sempre, non c’è stata risposta.

Dispiace tanta riluttanza e chiusura (e tanto opportunismo), per diverse ragioni. Intanto perché in quell’area abbiamo molti amici e amiche con cui per tanti anni siamo stati fianco a fianco e abbiamo anche portato avanti le stesse battaglie. E poi perché proprio quell’area politica dovrebbe essere munita di quella capacità critica e di analisi in grado di cogliere con lucidità le contraddizioni reali. Si preferisce invece tenere la testa sotto la sabbia, per dogmatismo, opportunismo, subalternità all’ideologia femminista. Un paradosso? Forse. Tendo però a pensare che le ragioni siano più profonde.

E così ci avviciniamo stancamente, come ogni anno, inesorabilmente, alla kermesse dell’8 marzo, ormai ridotta a parodia di sé stessa, nonostante i tentativi della “sinistra antagonista” di riportarla su binari che abbiano un significato e un fondamento politico (ma abbiamo appena visto su quali inconsistenti basi…). A proposito della festa dell’8 marzo lasciamo parlare due ricercatrici e storiche femministe, Tilde Capomazza e Marisa Ombra, che ci raccontano una storia (comprovata) per lo più sconosciuta (e se lo dicono loro…). Invito a leggere, ne vale la pena: http://www.linterferenza.info/editoriali/3409/

Concludendo, onde evitare fraintendimenti (mi rendo conto che può essere letta come una excusatio non petita ma, dati i tempi, non abbiamo alternative…), ribadisco che il sottoscritto e tutti coloro che scrivono su questo giornale sostengono con convinzione la assoluta e universale eguaglianza di tutti gli esseri umani (politica, giuridica, economica e “ontologica”) a prescindere dall’appartenenza o dall’orientamento sessuale. Proprio per questa ragione mi chiedo come sia possibile perseverare in quello che non esito a definire un delirio ideologico ormai privo di ogni collegamento con la realtà.

Immagine correlata

Fonte foto: Possibile (da Google)

Fonte articolo: http://www.linterferenza.info/attpol/8-marzo-cattivi-tempi-cui-si-deve-difendere-lovvio/

 

 

 

 

 

 

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